La Sardegna non è immune da casi che interessano soprattutto le famiglie Per questo occorre un fronte comune
La violenza sulle donne è frutto di una sottocultura che non rispetta i diritti umani. In una società in cui i valori si affievoliscono, in cui l’avere sembra prevalere sull’essere, in cui l’immagine della donna è sempre più legata allo stereotipo dell’apparire, è necessario fermarsi a riflettere su un fenomeno che è ormai diventato un’emergenza. Oggi che si celebra la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, istituita dalle Nazioni Unite nel 1999, il mio pensiero, prima di donna e poi di legislatore va a tutte quelle esponenti del mondo femminile che hanno subito, o subiscono, qualunque tipo di violenza sia fisica che psicologica. I dati parlano chiaro: in Italia una donna su tre, tra i 16 e i 70 anni, nella sua vita è rimasta vittima della violenza di un uomo.
Non sempre ci si riferisce alla violenza fisica, spesso, gli atti di brutalità sono psicologici, quindi più nascosti e, pertanto, meno denunciabili. E il trend della violenza sulle donne è in continua crescita: negli ultimi 10 anni le violenze sono aumentate di oltre il 300%. Dati allarmanti che si riferiscono a un quadro europeo ma che certo non si discostano molto dalla realtà della Sardegna.
E allora cosa fare? Noi legislatori dobbiamo trovare strumenti normativi che consentano alle donne di poter vivere in una società civile e sicura. Certo, non è facile. Anche tenendo presente che spesso le violenze si consumano nell’ambito delle pareti domestiche. In Italia ogni tre giorni una donna viene uccisa dal patner e le violenze e gli stupri vengono commessi nove volte su dieci in casa. Inoltre, appena l’uno per cento di violenze viene compiuto da sconosciuti.
Un passo avanti è stato fatto sicuramente con la legge sullo stalking che ha introdotto nuove ipotesi di reato con lo scopo di coprire un vuoto legislativo relativo a condotte reiterate di minacce, molestie, azioni di disturbo.
Ma c’è ancora tanto da fare per spezzare il muro di omertà e il circolo vizioso in cui le donne vittima delle violenze sono costrette a vivere. Infatti, sono ancora troppo poche coloro che dopo l’aggressione si sono rivolte alle forze di polizia, appena il 17 per cento nel 2009.
Una società civile degna di questo nome deve tutelare in ogni modo l’essere umano. Deve garantirgli una vita dignitosa, deve mitigare il degrado e la povertà, teatro usuale delle violenze più atroci. Perché spesso gli abusi si consumano in uno scenario di indigenza dove la povertà non è solo quella economica ma è rappresentata dall’impossibilità di vivere con dignità, di essere ascoltate e tutelate. Realtà che non dobbiamo cercare tanto lontane da noi. Siamo abituati a guardare verso paesi dove ogni diritto civile viene negato.
Ci scandalizziamo, giustamente, per le donne del Darfur, per quelle del Tagikistan a cui è negata ogni tipo di istruzione solo per il fatto di non essere uomini, per le donne violate in Bosnia ed Erzegovna, per le giovani stuprate, lapidate, uccise di tutto il mondo. E magari non riusciamo a vedere, ma solo perché spesso non abbiamo la capacità di guardare, le donne della nostra terra che hanno bisogno di aiuto e che per vergogna, o per una scarsa cultura della denuncia, tacciono. Noi dobbiamo dire no a questo silenzio che sta diventando assordante e opporci a ogni forma di soprusi fisici e mentali.
Anche in Sardegna, purtroppo la violenza di genere sta diventando endemica. Per combatterla e per sconfiggerla è dunque necessario un impegno politico ampio e costante che coinvolga tutte le istituzioni ad ogni livello.
Da La Nuova Sardegna
Pingback: La Regione Sardegna blocca segretamente la “doppia preferenza di genere” – Un altro genere di comunicazione