La notizia, piccola e dirompente è di appena qualche settimana fa. Il Consiglio comunale di Palermo ha approvato la mozione per l’istituzione del registro delle unioni civili, con 19 voti a favore, 3 contrari e 5 astenuti. A votare sì, sono stati i consiglieri di Pd, Idv, Un’altra storia e una parte del gruppo misto, ma anche esponenti del Pdl, dell’Mpa, di Forza del Sud e dell’Udc. È stato quest’ultimo dato a suscitare la maggiore curiosità e un qualche scandalo. «Ma – ha dichiarato Giulia Adamo, capogruppo dell’Udc nell’assemblea regionale siciliana e firmataria di un disegno di legge in materia – in tanti la pensano come me: c’è un’ampia area laica nel partito». Viene da dire: sarebbe bello, ma la questione del riconoscimento di diritti e garanzie per le unioni tra persone dello stesso sesso è tuttora materia assai controversa.
Nei giorni scorsi, poche ore prima che venisse approvata a Palermo quella mozione, a Sassari si svolgeva un importante convegno sul tema, promosso dal Movimento omosessuale sardo e dal suo infaticabile coordinatore Massimo Mele. In quella città, il registro delle unioni civili è stato istituito qualche mese fa, e anche questa è una bella notizia: tanto più se si tiene conto che, a livello legislativo, nulla è stato ancora fatto. E che questa crescente distanza tra un’opinione pubblica sempre più sensibile e la debolezza di adeguate tutele giuridiche, lascia spazio al riprodursi di ingiustizie e pregiudizi. Sentite questa. Oltre undici anni fa, sottoposi all’allora ministro della Sanità, Umberto Veronesi, la questione del decreto ministeriale 15 gennaio 1991, che escludeva dalla possibilità di donazione del sangue gli “uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini”. Quella disposizione rappresentava l’unico luogo del nostro ordinamento in cui vi fosse un riferimento esplicito all’omosessualità; ed era anche l’unica norma – sia pure di legislazione secondaria – in cui gli omosessuali venissero espressamente discriminati. Molti sono, nell’ordinamento, i punti in cui vi è una implicita discriminazione omofobica, ma essi non sono mai richiamati direttamente. Nel caso della donazione del sangue, invece, il richiamo discriminatorio è diretto. Nella primavera del 2001 il nuovo decreto ministeriale cancellò quel divieto, ma esattamente a dieci anni di distanza, appena poche settimane fa, a Roma, nel più grande ospedale cittadino, non verrà consentito a una donna che si dichiara lesbica di donare il proprio sangue.
Ecco, nella distanza tra questi due fatti – un decreto del 2001 che elimina una discriminazione e una prassi burocratica che la ripristina – sta tutta l’enormità del problema. Da un lato, vuoto legislativo e vischiosità mai innocenti della burocrazia, e solidissimi pregiudizi culturali e religiosi, oltre che politici; dall’altro lato, una diffusa domanda di riconoscimento di diritti, un crescente consenso sociale e la sensibilità di amministrazioni locali.
Al fine di ridurre quella distanza, la sentenza della Corte Costituzionale 138/2010 costituisce una leva essenziale. I costituzionalisti hanno opinioni differenti in merito, ma è certo che quella sentenza rappresenta una inequivocabile affermazione del principio di non discriminazione nei confronti di gay lesbiche e trans. Inoltre viene lanciato un monito al legislatore affinché disciplini le unioni civili, in quanto riconducibili alle formazioni sociali dove si svolge la personalità umana, richiamate dall’articolo 2 della Costituzione. Di conseguenza, se assumiamo quell’articolo come determinante, avremo la premessa di una possibile soluzione legislativa, che garantisca alle persone dello stesso sesso quel complesso di diritti e in particolare «il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Da qui l’esigenza non più differibile di predisporre, per via legislativa, ulteriori istituti capaci di offrire riconoscimento giuridico a forme di coniugalità anche tra persone dello stesso sesso. Forme di coniugalità connotate da affettività e progettualità, con reciproci diritti e doveri nonché compiti stabilmente assunti. In conclusione, le parole chiave attorno alle quali agire, sono due: oltre a quella di parità, è la categoria di dignità che va valorizzata, come concreta applicazione di quella uguaglianza proclamata dall’articolo 3 della Costituzione. E questo ha una conseguenza importante. Certamente vanno tutelati i diritti di tutte le coppie di fatto, anche di sesso diverso, ma questo riconoscimento amministrativo e giuridico non sarebbe sufficiente se – allo stesso tempo – non venisse affermata la piena dignità del legame tra persone dello stesso sesso, unite da reciprocità e finalità condivise. Dunque una coniugalità dotata di una forte intenzionalità morale.
Fonte Luigi Manconi per l’Unità