“Non ha senso applicare al passato la nostra stessa idea di eterosessualità. I generi, i ruoli, le identità non hanno un’esistenza propria, ma solo relazionale”
Un esempio autobiografico ma istruttivo su come sia facile ricadere nell’idea che la letteratura sia un campo innocentemente sgombro da complicazioni di orientamento: subito dopo aver scritto una storia culturale dell’omosessualità, sono passato a un romanzo che brillava per una completa assenza del tema e per una quasi perfetta aderenza alle «tradizionali» norme di genere. Potrei difendermi dicendo che quel romanzo seguiva in gran parte le modalità di una fiaba, e che la fiaba necessita di un certo numero di stilizzazioni, impone certe regole; movimentare i ruoli di genere canonici significherebbe quindi stravolgere le regole interne della fiaba. Tutto vero: il fatto è però che non mi ero neanche posto il problema.
Ricostruire la tradizione
La fiaba, come forma massimamente stilizzata, è un buon esempio da cui partire per illustrare fino a che punto i ruoli di genere e l’eterosessualità siano naturalizzati, percepiti come la norma. Per secoli il nostro immaginario si è nutrito di narrazioni che ci parlavano di ruoli bloccati. Nel caso della fiaba di oziosi principi azzurri che passano le loro giornate a cavallo in attesa di fanciulle (bianche come il latte, rosse come il sangue e dai capelli neri come il corvo) da notare e da ghermire, e di Cenerentole in attesa di essere notate dai principi suddetti. Non che il modello proposto alle italiane di oggi sia troppo diverso.
Per scardinare, o almeno movimentare, questo blocco si possono ipotizzare una serie di mosse, ognuna delle quali esemplifica un’interpretazione diversa del rapporto letteratura-omosessualità. Rimanendo alla fiaba, si può pensare (e in effetti è stato fatto) di riscrivere fiabe famose in chiave gay. Si ottiene in questo modo una produzione più «militante», che non ha solo lo scopo di scavalcare la coppia ineludibile principe-Cenerentola, ma soprattutto quello di proporre riferimenti diversi e finali alternativi a chi altrimenti ne sarebbe privo. Si può poi pensare di andare in cerca delle eventuali fiabe che contengano contenuti gay più o meno mascherati. È questa la fase di costruzione/ricostruzione di una tradizione. Un’operazione in realtà non così difficile se si accetta di non fermarsi alle fiabe popolari, dato che, soprattutto nell’Ottocento, il fiabesco e il fantastico sono stati spesso e volentieri impiegati da autori omosessuali per parlare di ciò che nella lingua ufficiale non si poteva dire (basti pensare ad Andersen, a Wilde, a Edward Lear, ma anche Lo strano caso del dottor Jekyll e di mister Hyde meriterebbe qualche riflessione).
C’è però anche un’altra opzione, apparentemente meno frontale, che consiste nel superare la superficie levigata e contorta delle fiabe, ripulirle dalle incrostazioni derivate dalla loro recente destinazione all’infanzia borghese, dall’ideologia dell’amore romantico, allo scopo di indagare che funzione avessero le fiabe all’interno della socialità contadina e di storicizzare il tipo di rapporti di potere e di rapporti tra i generi che le fiabe riprendevano, sognavano, abbellivano.
È infatti possibile indagare i testi del passato servendosi di una chiave di lettura gay e lesbica senza che questo coincida con la costruzione di una controletteratura gay opposta a quella ufficiale o con la ricerca d’archivio e la sia pure essenziale scoperta dell’acqua calda («le storie letterarie ci hanno mentito: il tale autore in realtà era gay!»). In altre parole non è detto che gli studi gay e lesbici debbano occuparsi solo di ciò che è esplicito e di ciò che può essere proposto come modello positivo. Possono occuparsi anche di quelli che Tommaso Giartosio, con una bella formula, ha definito i «testi che pongono domande etiche sull’omosocialità», sui tabù e i margini delle culture, sulle aree di confine dove, per esempio, l’omosocialità sconfina nell’omosessualità e la pedagogia nella pederastia. Possono (e anzi devono) a questo punto occuparsi anche dell’omofobia. I gay studies insomma come ennesimo metodo critico di smascheramento e di decostruzione dei testi, per far dire loro ciò che non vogliono dire apertamente, o che noi non possiamo più intendere. Un metodo però più sorprendente di altri, a causa dell’importanza che la sessualità ha sempre avuto nello strutturare le società, della profondità a cui vengono introiettati i ruoli di genere, ma anche del modo in cui le tradizioni letterarie nazionali sono state usate proprio per fissare la maschilità e la femminilità ideali.
Categorie in movimento
Un’operazione di questo tipo sarebbe particolarmente raccomandabile in Italia. Da una parte per la storicamente scarsa sensibilità italiana verso le differenze e la conseguente riluttanza a chiamare l’omofobia col suo vero nome. Dall’altra per le curiose caratteristiche della nostra tradizione letteraria. Una tradizione così essenziale per la nostra identità nazionale, così premurosamente trasformata in feticcio polveroso, ma anche una tradizione estremamente ricca di temi omoerotici, persino (anzi: specialmente) nei suoi periodi di più furioso classicismo. Come esempi di riletture in questa chiave della letteratura italiana, penso alle pagine dantesche di Giartosio e di Gabriele Muresu, agli studi (iniziati in ambito storiografico) sulla pervasività del modello pederastico nella Firenze del Quattrocento, alla sostituzione dell’omoerotismo all’omosessualità come vero oggetto di studio proposta da Massimo Fusillo, all’antologia di poesie omoerotiche cui sta lavorando Luca Baldoni e che significativamente non inizia da Saba, ma da Pascoli. Ma gli esempi potrebbero essere molto più numerosi.
Certo, i detrattori diranno che si tratta di un’operazione forzata, perché le categorie non hanno una validità universale, e quindi non ha senso applicare all’Italia medievale e rinascimentale la nostra stessa idea di omosessualità. Ma il punto è proprio questo: non ha senso come non avrebbe senso (eppure lo si fa) applicare al passato la nostra stessa idea di eterosessualità. I generi, i ruoli, le identità non hanno un’esistenza propria, ma solo relazionale. (di Paolo Zanotti)
Fonte il manifesto