Oggi l’HIV è, sia sul piano epidemiologico sia su quello sociale, ciò che davvero è, ovvero un’infezione a trasmissione prevalentemente sessuale che non è ad appannaggio esclusivo di gruppi chiusi di persone, ma riguarda tutti indistintamente; ha rivelato il suo carattere assolutamente trans-sociale, così come la sua principale modalità di trasmissione; tuttavia nonostante i mass media abbiano finito per creare un clima pestifero di manzoniana memoria, le rovine di quel bombardamento mediatico non hanno lasciato spazio all’informazione, ma la desolazione del pregiudizio e dell’ignoranza.
È stupefacente come tanti che hanno avuto l’infezione HIV possano insegnare a noi operatori molto su cosa è davvero importante per vivere serenamente. Il recupero della dimensione più profonda dell’essere umano è uno degli aspetti più rilevanti delle persone sieropositive, ed è una riflessione che avviene anche negli individui più disagiati, sia socialmente che psicologicamente, ma non è il solo; occorre aggiungere la ricerca costante della solidarietà e del senso di affetto da parte dei malati, che in un reparto dove si cura l’infezione da HIV si palpa con immediatezza. In Sardegna, dove i centri integrati per cura e supporto dei pazienti con HIV sono ancora un miraggio, dove c’è chi ha perso il lavoro a causa della sua condizione, a noi operatori sanitari è affidato un compito importante, perché è la conoscenza che scioglie i pregiudizi, e la cura consiste nell’aiutare il prossimo, come noi vorremmo essere aiutati se fossimo nella sofferenza.
A volte sembra che i milioni di malati nel mondo siano vittime quasi necessarie, nella malcelata convinzione che i mali che uccidono oggi saranno debellati domani. Se questo è vero per chi presta il proprio servizio in un reparto di Radio Oncologia, dove il dolore si mescola tristemente ad un livore spesso palese per tutto ciò che la medicina non è in grado di fare, quando si incontra una persona che deve affrontare un tumore HIV indotto, ci si potrebbe aspettare una vera e propria esasperazione di questi atteggiamenti. È sorprendente quanto invece questi soggetti siano in grado di farci apprezzare aspetti dell’esistenza semplicemente sepolti dalla frettolosa routine. Appare chiaro che la cura del paziente è un concetto globale che non può più prescindere dal preservare un equilibrio spirituale particolarmente fragile nelle persone costrette a convivere con malattie croniche quali le neoplasie. Occorre essere consapevoli che bisogna prendersi cura di tutta la persona sofferente, cercando di infondere forza e speranza allo spirito per lottare e nello stesso tempo poter rivalutare aspetti esistenziali spesso tralasciati in favore di elementi esistenziali che alla resa dei conti sono banali. Purtroppo questa consapevolezza passa sempre più sotto silenzio negli ambienti sanitari, soprattutto a causa dell’imperante delirio di immortalità di cui la società occidentale è afflitta, persa in una contagiosa (tanto futuristica, quanto falsa) attesa della panacea risolutiva delle più disparate forme patologiche. Dal cancro all’infezione da HIV siamo sempre in attesa di un vaccino, si cerca un rimedio definitivo insomma, qualcosa che conduca l’uomo a una speranza futuristica e quindi egoistica di immortalità.
Oggi, epoca della HAART (terapia antivirale ad alta efficacia) non solo non si muore più di AIDS, ma chi vive con l’infezione può fare una vita normale dal punto di vista fisiologico, mentre dovrà rinunciare a parlare del suo dramma, perché è il pregiudizio ad uccidere l’animo umano, frustrando la speranza di solidarietà, e conducendo alla disperazione e alla solitudine. Mentre sa accontentarsi e godere di piccole cose, comprendendo con maggior chiarezza che è possibile sorridere di cuore anche di fronte alla vista di un semplice paesaggio o del colore del cielo.
ANDREA SCAPATI, l’Unione Sarda
(Direttore RadioOncologia HSF Nuoro, Onco Infettivologo INMI L. Spallanzani – Roma)