La Serbia ha ricevuto pressioni dall’Unione Europea perchè non venisse annullato il Gay Pride, in programma lo scorso fine settimana.
Lo ha rivelato al quotidiano Vecernje Novost il ministro degli Interni serbo, Ivica Dacic, sostenendo di avere preferito «assumersi la responsabilità» di annullare la manifestazione, piuttosto che consentire «un bagno di sangue nelle strade di Belgrado».
Lo scorso anno, in occasione della prima parata del Gay Pride organizzata in Serbia, si erano verificati violenti scontri tra gruppi di manifestanti contrari alla parata e la polizia che tentava di proteggere i partecipanti alla sfilata e i loro sostenitori.
02/10/2011
E’ arrivata venerdì 30 settembre 2011, a due giorni dal giorno in cui era previsto lo svolgimento della manifestazione, la decisione del governo serbo di proibire lo svolgimento della Parada ponosa (Corteo dell’orgoglio) di Belgrado. La condizione delle popolazione LGTB (lesbiche, gay, transgender e bisessuali) in Serbia è da anni al centro del dibattito politico e sotto i riflettori puntati da parte dell’Europa, caricandosi di significati identitari più ampi.
La spirale negativa della Serbia post-Milosevic si è aperta nel 2001 con il primo tentativo di organizzare una manifestazione, soffocato nel sangue sotto lo sguardo inerte della polizia. Ci si era riprovato nel 2009 con un corteo annullato all’ultimo momento, mentre il Pride del 2010, l’unico ad oggi tenutosi, si era svolto all’interno di un circuito protetto da cordoni di sicurezza. All’esterno, la città veniva messa a ferro e fuoco da folti e ben organizzati gruppi di estremisti, con un bilancio imprecisato di feriti.
Dopo un pressing andato a vuoto degli ultimi giorni sugli organizzatori del Corteo perché lo annullassero, il ministro dell’Interno Ivica Dacic – del partito socialista, distanziatosi, ma non troppo dai bui anni Novanta – a nome del governo ha annullato forzatamente la manifestazione, definendola ad alto rischio. La polizia serba nelle ultime ore sarebbe venuta a conoscenza di un piano preparato anticipatamente da parte di estremisti per provocare disordini in tutta la città e disperdere la polizia e avrebbe concluso di non essere in grado di affrontare la situazione. Appoggiato in questo dal presidente Boris Tadic, eletto nel 2008 come simbolo dell’opinione pubblica europeista, che aveva in precedenza espresso ripetutamente il suo appoggio al Pride.
Insieme alla manifestazione della comunità LGBT sono state proibite le manifestazioni che le si opponevano, come la “marcia della famiglia” organizzata dal movimento di estrema destra Dveri, appoggiate dalla Chiesa ortodossa. Il patriarca Irenej, sottolineando di appellarsi alla non violenza, aveva tenuto un discorso che può essere definito di “incitamento all’odio”, definendo la manifestazione una “parata della vergogna” e chiedendone alle autorità competenti l’annullamento.
Secondo diverse voci, la mancanza di un appoggio politico al Pride sarebbe spiegabile con l’avvicinarsi delle elezioni e con l’affievolirsi dell’importanza della questione dell’avvicinamento della Serbia all’Europa nello scenario politico locale, reso ancor più teso dalla situazione incendiaria del Kosovo del nord.
Condannato dalla società civile e da Amnesty International, la decisione del governo serbo di proibire lo svolgimento del Pride apre una serie di domande sulla società serba, che ne svelano un lato oscuro. In primo luogo, appare gravissima la decisione dei vertici del paese di “capitolare di fronte agli hooligan e agli estremisti”, come hanno commentato gli organizzatori, equiparando nelle loro dichiarazioni sull’annullamento una manifestazione pacifica di rivendicazione dei diritti con contromanifestazioni ideate appositamente per bloccare – attraverso la violenza – la prima.
Inoltre inquieta una tale dimostrazione di impotenza da parte di uno Stato, che se ne avesse avuto la volontà politica, avrebbe avuto un anno di tempo (dallo scorso Pride) per confrontarsi con le frange violente che nasconde in seno. Che il ministro dell’Interno e la polizia praticamente ammettano di non potere/volere confrontarsi con migliaia di violenti politicizzati, che camminano per le strade della Serbia e potrebbero al momento richiesto trasformarsi in una forza eversiva.
Che parte del mondo della politica e la Chiesa ortodossa in blocco si siano schierate con gli estremisti. Tutto questo può essere visto come un segnale, da parte del Paese, delle difficoltà ad affrancarsi da un passato autoritario e da una malintesa idea identitaria che si sfonda sul nazionalismo e sull’esclusione dell’altro. Elementi dai quali l’attuale coalizione di governo non riesce a prendere totalmente le distanze.
Tuttavia, le istituzioni serbe non sono state sole in questo voltafaccia, ma sostenute da una grossa parte dell’opinione pubblica che considera la lotta contro l’omofobia e per i diritti civili un diktat della comunità internazionale e gli atti di violenza responsabilità degli aggrediti e non degli aggressori. Sarà una maturazione reale della società serba a cambiare la situazione, ma la strada appare in salita.
Fonte peacereporter