I maschi si fanno troppo poche domande sulle questioni sollevate dal Rubygate
L’ appello a partecipare alle manifestazioni di domenica fa discutere le donne, e le divide, come non succedeva da decenni. Secondo il direttore dell’Unità, Concita De Gregorio, «sostenitori e fiancheggiatori dell’Arcore style» cercano di trarne partito, nella malcelata speranza che si scateni «una rissa da pollaio». Non è certo il caso del confronto aperto sul Corriere. In generale, può anche darsi. Resta il fatto, però, che questa discussione, e anche queste divisioni, già rappresentano, in tempi di desolazione del dibattito pubblico, una ricchezza riscoperta di cui dovremmo tutti essere grati alle donne.
Tutti. Quindi anche, e soprattutto, noi uomini, che ci interroghiamo così poco, e sulla scorta di categorie così mediocri, sulle questioni sollevate dal Rubygate, quasi che dalle notti di Arcore, e non solo dalle notti di Arcore, l’immagine maschile non uscisse infinitamente più devastata di quella femminile. Coglie nel segno, certo, Manuela Fraire, quando segnala quanto, nel Rubygate, contino la paura della morte, e «il vuoto di senso» attorno a cui ruota il potere: «Perché questo declino terribile e tristissimo poiché rifiutato, temuto, negato, perché questo spasmodico bisogno di un corpo femminile per sventare la comparsa del convitato di pietra»? Ma non credo che la politica, e nemmeno la giustizia, possano dare risposte a domande così angosciose. Forse sarebbe il caso di circoscrivere con un po’ di crudo realismo il problema. Come fanno, sul Riformista, Letizia Paolozzi e Franca Chiaromonte, quando osservano che lo scambio in cui le donne sono la controparte (a suo modo libera, ma come lo erano, vendendo la loro forza lavoro, i salariati di Carlo Marx richiamati in causa sul Corriere da Olivia Guaraldo) viene praticato, per odioso che sia, su scala di massa, e la differenza (politica e istituzionale) sta tutta nel ruolo di Silvio Berlusconi, «perché un simile scambio un premier non può praticarlo pubblicamente: dovrebbe rispondere del proibizionismo e dell’ipocrisia del governo, e presentarsi ai giudici per smentirlo».
Sottoscrivo alla lettera, presentazione ai giudici ovviamente compresa, ma avverto che non basta. Perché le domande su cui toccherebbe, donne e uomini, arrovellarsi sono anche altre. «L’Italia non è un bordello», recitano gli striscioni inalberati dalle donne che protestano. Ma è davvero così? Antonio Polito, richiamandosi al costume nazionale e pure al dibattito in corso sul Corriere e altrove, non ne è tanto convinto. O, almeno, pensa che la questione si sia fatta molto più complicata. Anch’io. E non solo, né soprattutto, perché nei più diversi ambienti sociali è cresciuto assai il numero delle ragazze e delle donne «consapevoli di essere sedute sulla propria fortuna» e convinte dell’opportunità di farne partecipe «chi può concretarla»: tutto questo, in termini liberali ha ragione Piero Ostellino, non basta a farne automaticamente delle prostitute né, tanto meno, ad autorizzare altre donne «perbene» a metterle sotto accusa come donne «permale». Ma se capita, e capita, bisognerebbe prima di tutto cercare di capire perché, interrogarsi sul modello sociale e culturale dominante, su chi compra e non soltanto (troppo comodo, e anche un po’ infame) su chi vende. Anch’io provo un qualche imbarazzo di fronte a un certo bacchettonismo (malattia senile del giustizialismo?) di ritorno nella sinistra, e un certo stupore a leggere, in un appello alla mobilitazione scritto da donne e rivolto in primo luogo alle donne, che «senza quasi rendercene conto abbiamo superato la soglia della decenza»: attente, siamo a un passo dal «comune senso del pudore». Leggo Emma Fattorini, però, che scrive dei compagni di scuola di suo figlio, increduli alla vista della loro compagna così bella che si ostina, ciò nonostante, a studiare il greco, e sento l’eco di quanto mi racconta angosciata mia moglie a proposito dei suoi studenti e delle sue studentesse di un istituto tecnico di frontiera che, senza incontrare troppe resistenze nei genitori, la pensano allo stesso modo, ma in termini molto più espliciti: e mi chiedo se davvero le generazioni adulte possono pensare di cavarsela elargendo loro qualche buon precetto liberale.
Credo, onestamente, di no. Mi domando pure se la «sinistra liberale» porti, in materia, le responsabilità di cui dice Polito. Davvero la «cultura progressista» è stata subalterna a questa «presunta modernizzazione», davvero è «ormai schiava di una cultura dei diritti declinata soprattutto in chiave di libertà sessuale», davvero è senza parole convincenti perché non ha saputo riconoscere che alcuni aspetti della tradizione andavano conservati, e non si è sforzata «di comprendere la morale sessuale della Chiesa», dimenticando la lezione del giovane Berlinguer che indicava a modello delle ragazze comuniste, assieme alla partigiana Irma Bandiera torturata a morte, Maria Goretti? Non direi proprio, sui diritti non so la cultura, ma la politica «progressista» è stata timida, se non latitante. In ogni caso, il Rubygate e i suoi ampi dintorni tutto possono indurre a pensare, fuorché di fare autocritica per aver appoggiato i Gay Pride, difeso i Dico o sostenuto la fecondazione eterologa, mentre chi oggi insorge contro il moralismo strumentale faceva strumentalmente blocco in nome della morale (e della religione) oltraggiata. E poi. Ogni ragionamento sui limiti (codice penale a parte) della libertà sessuale è, ci mancherebbe, legittimo. Ma tra la libertà sessuale e la visione del mondo neopostribolare di cui tocca occuparci la distanza è e dovrebbe restare stellare: sarà pure una banalità, ma con i tempi che corrono è il caso di riaffermarla.
Paolo Franchi corriere.it