Di Luisa Cutzu il 2 Maggio 2020. Nessun commento
Siamo in quarantena da oramai più di 40 giorni. Parlare di qualcosa che non abbia a che fare con il Voi-Sapete-Cosa (mi sento ora in un momento di rifiuto del problema, tra qualche tempo saprò anche io pronunciare il nome di questo nemico invisibile che ci sta attanagliando) è diventato complicato. I riferimenti al presente che stiamo vivendo sono inevitabili e lo saranno per molto tempo. Siamo in una fase emotivamente discendente. Siamo partit* carich*, pien* di buoni propositi; ovunque, sui social, abbiamo assistito al proliferare di consigli su come impegnare il tempo a nostra disposizione; attività da svolgere indoor, sui balconi, al computer, sul divano; liste di film da recuperare assolutamente, serie tv imperdibili, libri da leggere prima di morire.
Probabilmente in ritardo rispetto al mondo, ma comunque sempre in tempo, è arrivato anche qui il momento di proporre una lista di film LGBT+ rintracciabili su Netflix che, per diverse ragioni, meritano la nostra attenzione.
UN AMORE SEGRETO (A SECRET LOVE) – Chris Bolan, 2020
Terry Donahue e Pat Henschel stanno insieme fin dagli anni Quaranta. Anni, in generale, pieni di difficoltà in un paese conservatore come l’America, soprattutto per una coppia di lesbiche. Terry è una giocatrice professionista di baseball, fa parte della All-American Girls Professional Baseball League [la stessa lega che ha ispirato il film Ragazze Vincenti (A League of Their Own, Penny Marshall, 1992)]. Conosce Pat casualmente, durante una partita di hockey, e da quel momento diventano inseparabili. Pat viene accolta con affetto dalla famiglia di Terry, ma nessuno è a conoscenza del loro amore. Dopo sessantacinque anni di fidanzamento nascosto, decidono finalmente di fare coming out.
Il documentario segue la vita di Terry e Pat dal momento in cui decidono di svelare il loro amore alle persone care e ci offre un tuffo nel passato servendosi di vecchie fotografie e filmati d’archivio. Un presente felice e tranquillo, accompagnato dagli acciacchi della vecchiaia, che però non dimentica gli avvenimenti, anche quelli più difficili, del passato. Il film, infatti, non tralascia di mostrare quanto fosse complessa la vita degli omosessuali tra gli anni Quaranta e Sessanta. Emblematico, a tal proposito, è il ritrovamento di alcune lettere d’amore che Pat scriveva a Terry: la parte inferiore di tutti i fogli risulta strappata, per evitare che si vedessero le firme e che qualcuno potesse venire a conoscenza della loro relazione.
Sentimenti ed emozioni di vario tipo accompagnano la visione di questo documentario. Un senso di appagamento e serenità ci sedimenta dentro per tutta la durata della visione, dato probabilmente dall’essenza genuina delle due protagoniste e/o da un moto di giustizia nel vedere una coppia di lesbiche sopravvivere alle avversità del mondo con sfrontatezza e coraggio.
Si consiglia di tenere un buon quantitativo di fazzoletti a portata di mano.
NELLA MIA FAMIGLIA (ALL IN MY FAMILY) – Hao Wu, 2019
Il regista cinese Hao Wu racconta, attraverso questo documentario autobiografico, l’impatto che la sua omosessualità e l’omogenitorialità hanno avuto sulla sua famiglia d’origine. Wu vive negli Stati Uniti insieme al suo compagno; dopo anni di relazione, decidono di ricorrere alla maternità surrogata per avere dei figli. Il documentario, che ripercorre velocemente le tappe più importanti della vita e dell’omosessualità di Wu, racconta il momento in cui il regista decide di parlare alla sua famiglia cinese (e residente in Cina) della scelta di avere due bambini.
In un paese come la Cina – dove l’omosessualità non è illegale, ma è proibito parlarne e di recente (nel 2016) tutte le piattaforme video online sono state obbligate a eliminare qualsiasi contenuto LGBT+ (2) – la cultura rigida delle vecchie generazioni fa ancora da padrona. Il documentario, pur concentrandosi unicamente sul nucleo familiare del regista, mette in luce alcune criticità che probabilmente dominano l’intero paese. La figura della madre di Wu risulta particolarmente interessante in quanto ciò che lei dice, ferma nelle sue posizioni retrograde e legate a una tradizione secolare, viene puntualmente tradito dalle sue azioni. I gesti che compie e le modalità con le quali accoglie il figlio, il compagno del figlio e i due nipoti, mostrano il suo amore incondizionato che sfugge alle logiche della ragione; tenta costantemente di bilanciare questa morbidezza con le parole, come se non volesse accettare di avere, nel profondo, una mentalità assai lontana da quella dominante.
Un documentario delicato ed emozionante.
THE UNTOLD TALES OF ARMISTEAD MAUPIN – Jennifer M. Kroot, 2017
Parlare di questo documentario è complicato. Armistead Maupin è uno scrittore americano; comincia a pubblicare le sue Tales of the City prima sul Pacific Sun poi sul San Francisco Chronicle, nella seconda metà degli anni Settanta. I suoi racconti diventano poi un libro nel 1978 e la saga prosegue fino al 1989 con l’uscita del sesto volume.
Dai suoi racconti, nel 1993, viene tratta la prima di tre miniserie televisive: Tales of the City, More Tales of the City, Further Tales of the City. Nel 2019, Netflix acquista i diritti della serie e decide di produrre un’ultima stagione intitolata Tales of the City, come la prima.
Il documentario ripercorre la vita di Maupin attraverso interviste, materiali d’archivio e contributi tratti proprio dalle miniserie televisive. Il grande pregio del suo lavoro è quello di aver raccontato l’evoluzione della comunità LGBT di San Francisco, fino all’arrivo dell’AIDS, con estrema naturalezza. I suoi racconti, in un certo senso autobiografici, sono arrivati in seguito all’auto accettazione della propria omosessualità; da quel momento, la vita dello scrittore e le avventure dei suoi personaggi sono avanzati insieme trovando ancora nuovi momenti di connessione e scambio.
Per guardare The Untold Tales non è necessario aver visto le miniserie, ma conoscere e affezionarsi ai personaggi delle Tales contribuisce certamente ad apprezzare colui che li ha sviluppati.
Ci tengo comunque a specificare che consiglio caldamente anche le miniserie, tutte e quattro presenti su Netflix. Una volta aver superato la stranezza data dalla grana televisiva tipica degli anni Novanta, che ormai per alcun* è solo un velato ricordo, e il recast di alcuni personaggi, è tutto in discesa. Laura Linney e Olympia Dukakis sono magistrali.
THE DEATH AND LIFE OF MARSHA P. JOHNSON – David France, 2017
Nel 1992, il cadavere di Marsha P. Johnson viene ritrovato nel fiume Hudson. Il caso si chiude velocemente, la polizia dichiara si sia trattato di un suicidio. Nel 2017, France, con la collaborazione dell’attivista trans Victoria Cruz (arrivata ormai alla fine del suo impiego presso il New York City’s Anti Violence Project), porta avanti un’indagine per tentare di ricostruire la verità intorno alla scomparsa di Marsha. Il documentario, attraverso materiali d’archivio, interviste e nuove scoperte fatte da Cruz, cerca non solo di far luce su un caso di cronaca evidentemente insabbiato, ma anche di mostrare le condizioni della comunità LGBT+ degli anni Settanta. Marsha, infatti, insieme alla sua grande amica Sylvia Rivera, viene riconosciuta come una delle figure principali dei moti di Stonewall. Le loro lotte e le loro rivendicazioni erano legate principalmente al modo in cui le persone transgender, transessuali e drag queen venivano percepite e trattate non solo dalla società ma anche, e soprattutto, dalla stessa comunità LGBT.
Accanto alla ricostruzione del caso Johnson, viene affiancato l’omicidio di un’altra giovane donna: Islan Nettles, uccisa nel 2013 per il solo fatto di essere transgender. Il suo assassino è stato condannato a 12 anni di reclusione (anziché 25 come previsto), scatenando indignazione e sconforto.
Un documentario forte e attuale che dimostra da un lato quanta strada siamo riusciti a percorrere riconoscendo l’importanza storica di figure come Johnson e Rivera; dall’altra ci sprona a riflettere su quanta strada ci sia ancora da fare e quanto sia necessaria la coesione, in primis, all’interno della comunità LGBT+.
BEACH RATS – Eliza Hittman, 2017
“Non so bene cosa mi piace”, dice Frankie agli uomini che gli pongono domande più esplicite sulla sua sessualità. La verità è che Frankie, a dispetto di quanto voglia far credere a se stesso e agli altri, è spaventato perché sa, nel profondo, cosa è ciò che gli piace. Beach Rats, ambientato a Brooklyn, racconta le vicende di un giovane ragazzo alle prese con la propria sessualità. Il contesto affettivo e sociale nel quale è inserito non gli sono d’aiuto. In compagnia dei suoi amici, incarnazioni dell’ideale maschio alfa, Frankie trascorre le giornate per le strade della città, alla costante ricerca di uno sballo sia fisico sia mentale.
Lo sguardo di Hittman, perennemente attaccato ai corpi dei personaggi riuscendo però a non diventare morboso, tende a sottolineare quel cambiamento che tutte e tutti siamo portati a vivere durante l’adolescenza. Ma in Frankie c’è qualcosa che sta cambiando diversamente rispetto ai suoi compari e non riesce a trovare la giusta chiave di lettura. Si rifugia così nelle chat online, luogo di incontri per maschi omosessuali. Rimedia diversi appuntamenti, dimostrandoci che non è in atto una rimozione della sua vita sessuale, ma solo un timore nel portarla alla luce. Un coming of age ai tempi di Grindr, senza giudizio, senza morale e senza un carico di eccessiva drammaticità, che in questo caso non coincide necessariamente con un coming out (1).
Eliza Hittman vince il premio come miglior regista al Sundance Film Festival.
OTHER PEOPLE – Chris Kelly, 2016
David (Jesse Plemons), 29 anni, ha la sua vita a New York, confusa e precaria. La madre (Molly Shannon) è affetta da leiomiosarcoma ad uno stadio avanzato, perciò David fa rientro a Sacramento per stare vicino alla madre e al resto della sua famiglia.
Tornare a casa dopo lungo tempo si rivela più complicato del previsto: lo scontro con i fantasmi del passato, le difficoltà legate all’omosessualità, il rapporto sfilacciato con il padre (Bradley Whitford) e i limiti di una città che non è New York rendono tutto più difficile da vivere.
Chris Kelly, autore del Saturday Night Live, scrive e dirige il suo primo lungometraggio. Attraverso elementi autobiografici e sfruttando i tratti della commedia drammatica, Kelly racconta i disagi di un giovane gay inserendolo nel micro contesto familiare e nel macro contesto cittadino. L’avanzare della sua frustrazione lavorativa e della sua delusione affettiva, coincide con l’avanzare della malattia della madre. Due linee parallele che si alimentano a vicenda e trovano l’una nell’altra la forza di andare avanti nonostante tutto.
Il film è stato presentato al Sundance Film Festival nel 2016; nel 2017 Molly Shannon vince agli Spirit Awards come miglior attrice non protagonista.
Si consiglia la visione in lingua originale, sia per godere dell’interpretazione di Jesse Plemons sia per evitare di incorrere nella fastidiosa traduzione italiana: in ben due momenti diversi del film, l’espressione “coming out” viene erroneamente tradotta con “outing”. Un errore che imbarazza e sottolinea quanto confusione e ignoranza siano ancora largamente diffuse.
1. Rimando a Pier Maria Bocchi, Mondo Queer. Cinema e militanza gay, Lindau, Torino, 2005.
2. Un maggiore approfondimento è disponibile al seguente link https://www.internazionale.it/notizie/gabriele-battaglia/2017/12/15/cina-diritti-lgbt
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