La guerra è la nostra distruttività fantasticata individualmente, tesa verso un possibile nirvana e condivisa collettivamente nell’illusione di proteggere la parte più fragile di noi.
Sarebbe ingenuo credere che l’uomo rimanga “emozionalmente costante”(…). Le emozioni dipendono piuttosto dalle condizioni storiche esistenti,soprattutto dagli strumenti tecnici.
Cosi, Gunther Anders, nel suo pamphlet “l’odio è antiquato”, sottolineava la necessità di definire una storia del rapporto tra la guerra e le emozioni distruttive dell’uomo. Per il filosofo, nella guerra moderna, l’odio non si rendeva più necessario.
Ma, la guerra moderna, non libera l’uomo dalla responsabilità dell’uccidere, lo pone, piuttosto, di fronte alla peculiarità del suo aggredire.
La guerra nasce da quel groviglio di pulsioni, estraneo all’animale, collegato all’esistenza stessa dell’uomo. Da quell’essere sospeso tra il bisogno di vivere e la voluttà di autodistruggersi. Da qui il bisogno di spostare sull’altro, che diviene estraneo e nemico, la potenza distruttiva dell’angoscia di morte, che rischierebbe di distruggere la parte più profonda della personalità.
Franco Fornari, sottolineava che, l’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate nella guerra, favorisce la regressione a livelli primitivi della mente, all’alba del pensiero ad uno stadio in cui, l’altro, sia esso nemico o compagno, è totalmente assente;
il tempo e lo spazio sono fusi in un continuum che regala la sensazione di piena e appagante eternità. La guerra è la nostra distruttività fantasticata individualmente, tesa verso un possibile nirvana e condivisa collettivamente nell’illusione di proteggere la parte più fragile di noi.
Nell’azione di guerra, il rapporto tra l’io e la realtà si sospende e il mondo onirico si fonde con quello reale, potenziando la percezione offerta dall’apparato sensoriale. In questo senso, è un’esperienza surreale che può essere rintracciata nel metodo paranoico-critico di Salvador Dalì.
La distruttività, insita nella ricerca della quiete, quel narcisismo originario,che nega l’esistenza dell’altro,trovava nella definizione di paranoia, il suo senso più compiuto. Per Dalì, infatti, la paranoia nasceva dalla delusione, intesa nel suo significato di negazione del gioco che, è proprio ciò che manca nel narcisismo distruttivo. La capacità di investire sulla realtà e di trasfigurarla come mondo possibile con la creatività.
E’ la negazione del futuro e del rapporto con l’altro, in un delirio incessante di auto creazione.
Dalì ha rappresentato questa condizione, nella sua opera “Le metamorfosi di Narciso” in cui la sintesi tra l’onirico e il reale trova compimento in una mitologia di stile rinascimentale,
Nell’opera, la vicenda del giovane si trasforma in un’allegoria del rapporto tra l’illusione del ritorno allo stato originario e la compulsione dell’ auto- creazione narcisistica.
L’immagine riflessa di Narciso,si trasforma in una mano pietrificata, come a rappresentare il ritiro dell’affettività, che porge un uovo,simbolo del ritorno alla condizione fetale e del caos originario, da cui sboccia un narciso.
Dalì si lasciò affascinare, nell’ultimo periodo della sua vita, dalla potenza dell’atomo, ma la sua arte non mancò di suggerirgli che la parte più distruttiva dell’uomo, quella che nasce dal continuo rispecchiarsi e negare lo spazio dell’altro, può offrirgli la pace estatica della regressione insieme con il caos senza ritorno.