Si è svolto lunedì sera il dibattito sul ruolo delle amministrazioni ed istituzioni locali nella lotta all’omofobia e nel riconoscimento dei diritti di gay, lesbiche e trans. Assente Luigi Manconi, che ha inviato un intervento scritto, che riportiamo in fondo all’articolo. Presenti Massimo Clara, avvocato milanese e collaboratore dell’associazione nazionale Certi Diritti, per la quale ha seguito diverse cause riguardanti coppie omosessuali, Susanna Orrù, assessore ai servizi sociali di Cagliari, Sandro Gallittu, responsabile dello sportello Nuovi diritti della CGIL di Cagliari, Carlo Cotza, esponente dell’associazione GLBT di Cagliari ARC, e i consiglieri comunali Giampaolo Mameli, Esmeralda Ughi, Sergio Scavio, Simone Campus e Raffaele Tetti.
Di seguito l’articolo di Luca Fiori per La Nuova Sardegna e l’intervento del sociologo Luigi Manconi. A breve i video di tutti gli interventi
SASSARI. La lotta all’omofobia deve partire dalle scuole primarie e medie e il messaggio di uguaglianza deve arrivare agli studenti, ma soprattutto ai genitori. La scuola, è ancora un contesto omofono e l’omofobia risulta tra le prime cause di bullismo, ma anche tra quelle di suicidio tra gli adolescenti. L’allarme arriva dal convegno organizzato dal Movimento Omosessuale sardo per trovare strade da seguire per educare le generazioni e capire quale debba essere il ruolo delle istituzioni e delle organizzazioni sociali del territorio nella lotta all’omofobia e nel riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali e transessuali. Lunedì sera, nella sala convegni della Camera di Commercio, per parlare del problema omofobia si sono dati appuntamento politici, educatori e studiosi di diritto. «Sogno una scuola “deomofobizzata” – ha detto provocatoriamente Maria Paola Curreli, dirigente scolastico a Sorso ed esponente dell’Agedo, l’associazione dei genitori di omosessuali -. All’ingresso della nostra scuola c’è un poster con due farfalle che si baciano e un bambino e una bambina che le guardano. Uno dei due chiede all’altro: sono un maschio e una femmina? Risposta: non importa, sono due che si amano». Maria Paola Curreli ha annunciato che proporrà una modifica nel regolamento scolastico della sua scuola, inserendo un paragrafo sull’omofobia, aggiungendo un’aggravante nelle sanzioni per comportamenti di stampo omofobo o tranfobico. «Gli studenti – ha detto – spesso non sanno a chi rivolgersi per chiedere aiuto, specialmente nell’età dell’adolescenza. Noi educatori abbiamo il dovere di aiutarli e abbiamo il dovere di farlo affrontando i problemi immediatamente, perché a quell’età non c’è tempo da perdere. Attraverso i ragazzini dobbiamo arrivare anche ai genitori». Durante l’incontro, organizzato dal Movimento omosessuale sardo, in collaborazione con Arc e Cgil Nuovi diritti, è stato ricordato l’importante traguardo raggiunto pochi giorni fa, quando il consiglio comunale ha approvato una mozione di condanna all’omofobia e la transfobia e che sostiene l’approvazione di un’aggravante penale e si impegna a promuovere campagne di sensibilizzazione ed informazione sul territorio. Un documento che segue l’istituzione del registro delle Unioni Civili, approvato lo scorso luglio dal consiglio comunale sassarese. Atti simbolici, come i registri di Porto Torres e Atzara o le mozioni contro l’omofobia di Sennori e Tissi, ma anche segnali nella direzione del riconoscimento della piena cittadinanza per gay, lesbiche e trans. «Questi atti simbolici, se riorganizzati e armonizzati fra le varie amministrazioni e istituzioni territoriali- ha detto Massimo Mele, presidente del Mos – possono assumere peso politico e amministrativo, colmando in parte il vuoto legislativo in materia di diritti di gay e lesbiche» . Durante il dibattito sono intervenuti Massimo Clara, avvocato milanese della rete nazionale Certi Diritti, che di recente si è occupato dei ricorsi alla corte europea di coppie gay e lesbiche a cui sono state negate le partecipazioni nel comune di Milano e Susanna Orrù, assessore ai Servizi sociali di Cagliari, comune che si appresta ad approvare il registro delle Unioni Civili.
Intervento di Luigi Manconi
Luigi Manconi, presidente di A Buon Diritto
Care amiche e cari amici, se ripenso ai quindici anni trascorsi da quando, nel luglio del 1996, depositai al Senato della Repubblica la prima proposta di legge sul riconoscimento delle unioni civili, provo una sensazione contraddittoria. All’epoca la presentazione di quel disegno di legge sembrò, più che un fatto scandaloso, un gesto bizzarro, tanto la tematica appariva estranea non solo all’agenda parlamentare e politica, ma anche all’interesse dell’opinione pubblica e alla sensibilità collettiva. Da questo punto di vista, il tempo trascorso segnala indubbiamente un notevole progresso: il tema è diventato oggetto di controversie culturali e di conflitti politici, ma sta ben presente nel dibattito pubblico, e viene accolto con interesse e con crescente condivisione da gran parte della società italiana. E tuttavia – ecco la bruciante contraddizione – sul piano normativo nulla di fatto. Non solo: in assenza di novità legislative, le istituzioni, le amministrazioni e le burocrazie continuano, imperterrite, a fare danni. Un esempio solo. Nel giugno del 2000, oltre undici anni fa, sottoposi all’allora ministro della Sanità, Umberto Veronesi, la questione del decreto ministeriale 15 gennaio 1991, che escludeva dalla possibilità di donazione del sangue gli “uomini che hanno rapporti sessuali con altri uomini”. Quella disposizione rappresentava l’unico luogo del nostro ordinamento in cui vi fosse un riferimento esplicito all’omosessualità; ed era anche l’unica norma – sia pure di legislazione secondaria – in cui gli omosessuali venivano espressamente discriminati. Molti sono nel nostro ordinamento i punti in cui vi è un’implicita discriminazione dei cittadini omosessuali, ma essi non sono mai richiamati direttamente. Nel caso della donazione del sangue, invece, vi era un diretto richiamo discriminatorio. Nella primavera del 2001 il nuovo decreto ministeriale cancellerà quel divieto, ma esattamente a dieci anni di distanza, appena poche settimane fa, a Roma, nel più grande ospedale cittadino, non viene consentito a una donna che si dichiara lesbica di donare il proprio sangue. Ecco, nella distanza tra questi due fatti – un decreto del 2001 che elimina una discriminazione e una prassi burocratica che la ripristina – sta tutta l’enormità del problema con cui dobbiamo misurarci. Da un lato, vuoto legislativo e vischiosità mai innocente e spesso sordida della burocrazia, e anche solidissimi pregiudizi culturali e religiosi, oltre che politici; dall’altro lato, una diffusa domanda di riconoscimento di diritti e garanzie, un crescente consenso sociale e la sensibilità di amministrazioni locali, come quella della nostra città, Sassari, che istituiscono i registri delle unioni civili. In questo quadro contraddittorio il nodo fondamentale è ben evidenziato dal vostro documento di convocazione di questo convegno, dove si legge: “mettere in relazione, per un reciproco riconoscimento, i diversi livelli istituzionali, così da trasformare semplici atti simbolici in strumenti amministrativi funzionali a colmare, almeno per quanto concerne le competenze delle amministrazioni locali nel loro insieme, il gap legislativo attualmente presente in Italia sui diritti delle persone gay, lesbiche e transessuali”.
Oggi la leva fondamentale di cui disponiamo è la sentenza della Corte Costituzionale 138/2010. I costituzionalisti hanno opinioni differenti in merito, ma è certo che quella sentenza rappresenta una inequivocabile e limpida affermazione del principio di non discriminazione nei confronti di gay lesbiche e trans. Inoltre, non viene precluso in alcun modo un intervento legislativo in materia di matrimoni tra persone dello stesso sesso. E viene lanciato un monito al legislatore affinché disciplini quelle unioni, in quanto riconducibili alle formazioni sociali dove si svolge la personalità umana, richiamate dall’articolo 2 della Costituzione. Articolo che ha rappresentato la base per sancire i “nuovi diritti” e, in primo luogo, la dignità della persona, quale diritto “ad avere diritti”, secondo la splendida definizione di Hannah Arendt. Di conseguenza, se assumiamo l’articolo 2 come determinante, avremo la premessa di una possibile soluzione legislativa, che garantisca alle persone dello stesso sesso quel complesso di diritti e in particolare “il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”. Da qui l’esigenza non più differibile di predisporre, per via legislativa, ulteriori istituti capaci di offrire riconoscimento giuridico a forme di coniugalità anche tra persone dello stesso sesso. Forme di coniugalità connotate da affettività e progettualità, con reciproci diritti e doveri nonché compiti stabilmente assunti.
Tutto ciò tenendo conto che i concetti di famiglia e matrimonio devono interpretarsi in chiave evolutiva e non come nozioni cristallizzate. In altre parole, la “naturalità” della famiglia, che in genere viene brandita al fine di proclamarne la fissità nel tempo, può essere letta, deve essere letta, anche alla luce della sentenza della consulta, che invita a considerare “l’evoluzione delle società e dei costumi”. In conclusione, le parole chiave attorno alle quali si deve agire sono due: oltre a quella che ben conosciamo di parità, è la categoria di dignità che va valorizzata, come concreta applicazione di quella uguaglianza solennemente proclamata dall’articolo 3 della Costituzione. E questo esige una affermazione importante. Certamente vanno tutelati i diritti di tutte le coppie di fatto, anche di sesso diverso, ma questo riconoscimento amministrativo e giuridico non sarebbe sufficiente se – allo stesso tempo – non venisse affermata la piena dignità del legame tra persone dello stesso sesso, unite da reciprocità e finalità condivise. Dunque una coniugalità dotata di una forte intenzionalità morale.