“C’è del metodo in questa follia”, ammetteva Polonio osservando l’escamotage di Amleto desideroso di superare l’imperativo della vendetta che una parte del suo sé reclamava.
Il coraggio di Amleto consiste nel rifiutare il meccanismo attraverso il quale rispondere all’orrore inscenando il delitto per costringere coloro che se ne sono macchiati a rispecchiarsi nella loro azione.
Sovverte così un ordine immutabile: la vendetta non è che un modo per distribuire tra gli uomini quello che Elias Canetti chiamava il comando di morte, la risposta all’ansia di sopravvivere. Skakespeare trasferisce ad Amleto la fiducia incrollabile nella catarsi, nella possibilità per l’uomo di raggiungere la consapevolezza osservando se stesso entro una narrazione.
Proviamo ad immaginare la vendetta barbaricina come ordinamento giuridico in termini di drammatizzazione. Anche Pigliaru offre al mondo della Barbagia un canovaccio su cui articolare una scena antica. Costruisce una narrazione in cui la vendetta, trovando le sue radici profonde nell’angoscia di morte, si sviluppa in un sistema di regole dove l’uccisione dell’altro è un bene da distribuire equamente.
Come Amleto, Pigliaru drammatizza una scena atavica e il suo mito sapendo che, per il popolo della Barbagia quel rispecchiarsi nei suoi bisogni può evolvere verso una solidarietà non più dettata dalla distruttività.
C’è però un altro aspetto della vendetta che si gioca in Amleto e rende attuale la sfida del Festival di Gavoi e la sua ricerca di nuovi modelli di coraggio. Nicolas Abraham nel suo “le fantome d’Amlet” offre una lettura orientata al segreto. Amleto non riesce a consumare la sua vendetta perché inconsciamente consapevole della non assoluta innocenza del padre.
L’apparizione del suo fantasma provoca in lui un forte turbamento perché reca con sé il non detto di un delitto taciuto. La circolarità della vendetta non può riprodursi. Essa si poggia infatti sull’innocenza della vittima da vendicare e l’assoluta colpevolezza di colui che cadrà: di qui l’articolato sistema di regole per sfuggire al senso di colpa.
La vendetta nasconde, quindi, un segreto che assume la forma di un fantasma narrativo che orienta gli animi e i comportamenti perpetuando infinitamente il comando di morte.
Forse è qui che la vendetta barbaricina si dissolve come ordinamento giuridico: nel momento in cui il suo sistema di regole che distribuisce la giustizia si oppone al processo come drammatizzazione del segreto che ha condotto alla violenza.
Il processo, infatti, offre lo spazio simbolico in cui il segreto può essere individuato come movente. Uno spazio all’interno del quale i motivi del potere di vita e di morte sull’altro sono palesati e sanzionati giuridicamente. Amleto si oppone al potere del segreto, perché sa che da esso origineranno nuove minacce e nuova distruzione.
La psicanalisi ha indagato il rapporto tra segreto e trasmissione generazionale e ci mette in guardia su rischi che la perpetuazione di ciò che non viene rivelato comporta in termini di stereotipie culturali e comportamenti anomici.
Si può produrre cioè nelle giovani generazioni un’incapacità ad appropriarsi del valore simbolico di un’esperienza non sufficientemente elaborata e una frattura fra i comportamenti individuali e i valori di riferimento del gruppo.
Si apre la strada all’irrazionalità che, come scriveva Canetti, facilita la formazione della massa indifferenziata, perché mai come oggi si ha paura dell’ignoto e mai come oggi l’ignoto è rappresentato dall’altro.
Ecco la sfida del Festival di Gavoi e dei suoi spazi letterari: abbiamo bisogno di nuovi eroi che sappiano narrare e rappresentare la realtà rompendo gli equilibri cristallizzati e drammatizzando segreti che si perpetuano.
Eroi che sappiano ridere del coraggio di mantenere comportamenti ritualistici e giocare con l’antico mito del tesoro da scoprire, ben sapendo che questo come il segreto, se custodito per troppo tempo e non condiviso, si trasforma in fango.
Attendiamo da Gavoi e dalle sue narrazioni la possibilità di elaborare nuove forme di drammatizzazione del passato per riappropriarci del presente.