Brevi note sul matrimonio egualitario
L’articolo 29 della Costituzione prevede che: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.
Prescindendo momentaneamente, dalla complessa problematica relativa al riconoscimento dei diritti e dei doveri nell’ambito delle coppie di fatto, o comunque derivanti da unioni che non costituiscono matrimonio, è da verificare se come “società naturale fondata sul matrimonio” possa intendersi solamente quella derivante dall’unione tra un uomo e una donna, e conseguentemente possa definirsi “matrimonio” solo un’unione tra persone di sesso diverso.
Le norme del Codice civile in tema di matrimonio, anche dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975, sembrano tuttora muovere da questo presupposto, atteso che, sebbene il termine perlopiù usato nel designare i contraenti sia quello di “coniugi”, non mancano articoli che parlano espressamente, in termini di genere, di “marito e moglie”: così l’art. 143, comma 1, sui doveri e diritti reciproci dei coniugi, e l’art. 143-bis, sulla conservazione da parte della moglie del cognome del marito, in caso di divorzio, fino a nuove nozze.
Tuttavia, è da escludersi che sia la Costituzione, sia il Codice Civile, abbiano recepito in termini statici ed immutabili un concetto di “matrimonio” lontano da quello moderno di unione tra persone che provano affezione tendenzialmente orientata alla formazione della famiglia, e casomai conforme a parametri etico-religiosi, quale ad esempio la sua preordinazione alla “procreazione”, che esiste invece nella regolamentazione del matrimonio da parte del diritto canonico.
Per un verso, il Codice Civile, nel delineare i diritti e i doveri dei coniugi, non fa alcun riferimento specifico a quelli che presuppongono come prerequisito “naturale” la diversità di genere dei contraenti, in particolare alla capacità di procreare “secondo natura”.
L’art. 143, comma secondo del codice prevede che: “Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione.” È evidente che non vi è alcun riferimento alla procreazione, e neppure in senso lato all’obbligo di “estendere” la famiglia; al limite, l’intendimento di escludere che nel matrimonio possano essere generati figli, può costituire motivo di addebito del divorzio, ma non perché venga meno un requisito essenziale del matrimonio, bensì se si tratta di presupposto che l’altro coniuge considerava essenziale per determinarsi a contrarre il matrimonio o continuare la convivenza.
Per quanto attiene alla Costituzione, essa, non recando alcuna definizione del “matrimonio”, attua evidentemente quella che in termini “legalesi” si chiama la tecnica del rinvio, ossia la definizione di un istituto giuridico attraverso la normativa positiva che in concreto ne delinea la struttura.
Ciò significa che non è affatto incostituzionale un intervento legislativo che, superando le problematiche derivanti dai vari istituti, esistenti o ipotizzati, per accordare tutela giuridica alle unioni “di fatto”, tra omosessuali o meno – riguardo ai quali la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione, per orientamento consolidato, negano in larga misura l’equiparabilità al matrimonio quanto a diritti e doveri delle persone che “sono” nell’unione – reinterpreti l’istituto del matrimonio, alla luce della diversa realtà sociale dinanzi alla quale ci troviamo, all’insegna di una sua accessibilità anche da parte di persone dello stesso genere.
Anzi, un tale intervento, ai sensi dell‘art. 3, comma 2 della Costituzione sembra allo stato essere addirittura necessario, atteso che, se per un verso l’art. 29 della Costituzione stessa fa indefettibilmente riferimento al “matrimonio”, per altro verso è di dubbia conformità al principio di eguaglianza, formale e sostanziale, che si neghi l’accesso al matrimonio, unico istituto che ad oggi consente una pregnante tutela di diritti e doveri reciproci dei “coniugi”, alle persone dello stesso genere.
L’equivoco di fondo è, invero, rappresentato dal fatto che l’art. 29 della Costituzione andrebbe letto alla luce dell’ingresso del nostro Paese in un ordine giuridico e sociale democratico, in contrapposizione al previgente ordine fascista che, quanto alla regolamentazione giuridica della famiglia, si contraddistingueva per considerare le basilari ed importantissime relazioni sociali che si sviluppano entro tale “società naturale” quale materia da regolare più in termini di diritto pubblico e di interessi superiori della nazione che in termini di diritto privato, tanto è vero che ancor oggi è previsto l’intervento del Pubblico Ministero nelle cause inerenti al diritto di famiglia, pur formalmente “civili”.
Alla base di questo ben diverso modo di concepire le relazioni familiari, oltre alla sfiducia del fascismo nei confronti delle aggregazioni intermedie tra Stato e cittadini, non vi fu tanto una diretta adesione ai precetti della Chiesa sulla preordinazione del matrimonio alla procreazione, quanto la finalizzazione di quest’ultima a concorrere alla “grandezza” della Nazione.
Il costituente ha invece inteso stabilire che la famiglia non è di massima un’entità costituita dal diritto pubblico, esiste di per sé, appunto, come “società naturale”, e i suoi diritti vengono “riconosciuti”, non “stabiliti” dalla Costituzione; il riferimento al “matrimonio” è evidentemente quello a un vincolo con caratteristiche di serietà, in grado di formare una “società naturale” duratura e non precaria, in un’epoca in cui si era ben al di là dal teorizzare istituti quali i PACS francesi, i DICO ipotizzati all’epoca del secondo governo Prodi e simili.
Del resto, non esiste un concetto di “matrimonio” immutabile nei secoli, e per rendere l’idea basti fare riferimento alla tradizione giuridica romana.
Se il matrimonio, in epoca arcaica, era concepito come istituto tipicamente “padronale” e “patrimoniale”, in cui il marito era dotato della “manus” sulla moglie (un potere di supremazia molto esteso che incideva sui diritti civili e patrimoniali della sposa rendendola quasi “loco filiae”, alla stregua di una figlia nei confronti del marito, e che era preordinato alla prosecuzione della specie in una società ancora essenzialmente agraria, già in epoca classica si giunse a elaborare un modello di matrimonio libero, in cui il marito aveva perso tale supremazia sulla moglie e che appariva preordinato ad esigenze sociali e al soddisfacimento reciproco dei coniugi, piuttosto che alla procreazione, dato anche il drastico calo di natalità che interessò la società romana nella propria fase più gloriosa.
In sostanza, il dilemma che si pone al cospetto del legislatore, anche in termini di compatibilità con la Costituzione della legislazione in tema di diritto di famiglia, è tra prevedere forme di unione civile che assicurino, almeno in parte, gli stessi effetti del matrimonio, oppure, se si tiene ferma la linea restrittiva al riguardo, “aprire” l’istituto del matrimonio.
È molto interessante al riguardo, l’esperienza dell’Argentina, un Paese che quanto a sostrato culturale poco propizio (“machismo” diffuso, diversi episodi di omofobia e di violenza sulle donne) era forse messo peggio dell’Italia, ma, grazie a un forte atto di volontà della presidente Cristina Fernandez de Kirchner, è divenuto il primissimo Paese dell’America Latina ad aprire il matrimonio alle coppie omosessuali.
La legge approvata in Argentina è denominata Ley de Matrimonio Igualitario (legge sul matrimonio egualitario) e la tecnica legislativa adottata, di per sé, è abbastanza semplice: nel codice civile sono state sostituite le espressioni che facevano riferimento all’unione tra “un uomo e una donna” con altre facenti riferimento a un “contratto tra più persone”, e il termine “contraenti” è stato rimpiazzato col termine “coniugi”. A dimostrazione che non occorrono leggi speciali per introdurre le “nozze gay”, ma è sufficiente “aprire” l’istituto del matrimonio.
Significativamente, la presidente Kirchner ha affermato riguardo al “matrimonio egualitario” che, pur essendo eterosessuale (e peraltro antiabortista, quindi non certo sospetta di attivismo anticlericale) che con tale legge “Non mi hanno tolto niente e io non ho tolto niente a nessuno: abbiamo dato qualcosa a qualcuno che non l’aveva”. Riflettere su questa massima di saggezza potrebbe aiutare a comprendere che non possiamo interpretare la Costituzione forzosamente “togliendo” qualcosa a qualcuno, e che è la Costituzione stessa, prima ancora di qualche “monito” europeo, a esigere, coi tempi necessari ma che ormai non possono prolungarsi troppo, che il matrimonio sia inteso finalmente come unione “tra persone”, e non necessariamente “tra un uomo e una donna”.
Alberto Rilla
Iscritto al Circolo Is Mirrionis – Mulinu Becciu, Ex magistrato
Grazie per pubblicato un nostro articolo. Qui il link all’articolo originale:
http://pdcagliari.it/index.php?pid=blog&bid=154
Ciao, scusa, pensavo di aver messo anche il link …. 🙂