Il segretario generale dell’Onu, a pochi giorni dall’uccisione in Uganda di un attivista omosessuale, lancia un monito ai Paesi del continente contro le discriminazioni su base sessuale. In Italia le associazioni chiedono un impegno del nostro governo
A POCHI giorni dal primo anniversario della morte di David Kato, l’attivista gay barbaramente ucciso in Uganda, il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, lancia un monito ai Paesi africani, in difesa dei diritti delle persone omosessuali. Lo fa parlando ad Addis Abeba, durante il 18° summit dell’Unione africana, di fronte ai capi di stato e di governo di Paesi in cui i gay non solo non vengono tutelati, ma possono anche essere uccisi. Nella stragrande maggioranza degli Stati, l’omosessualità è un reato, e le persone Glbt rischiano il carcere. Le violenze (oltre alle discriminazioni) sono spesso incoraggiate dalla stampa locale ma anche dai leader politici. Le eccezioni sono poche: una di queste è rappresentata dal Sud Africa (quando, qualche giorno fa, il re degli Zulu ha insultato i gay, è stato ripreso dal presidente sudafricano, che ne ha preso le distanze).
La discriminazione sulla base dell’identità sessuale “è stata ignorata o perfino approvata da numerosi Stati per troppo tempo”, ha sottolineato oggi il numero uno dell’Onu. “Questo ha spinto i governi a trattare le persone come cittadini di seconda classe, o perfino come criminali. Combattere queste discriminazioni è una sfida, ma non dobbiamo abbandonare le idee della Dichiarazione universale dei diritti umani”. Per Ban Ki Moon, “il futuro dell’Africa dipende anche dall’investimento nei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali”. Oltre alle Nazioni Unite, anche gli Stati Uniti (nella persona del segretario di Stato, Hillary Clinton), Francia e Regno Unito, hanno più volte esercitato pressione sugli Stati africani che discriminano le persone gay, minacciandoli anche di far interrompere il flusso di aiuti occidentali, nell’ipotesi in cui l’omosessualità non dovesse essere depenalizzata.
E’ ancora vivo il ricordo della morte dell’attivista David Kato, ammazzato il 26 gennaio dello scorso anno all’età di 47 anni, presso la sua abitazione, dopo una campagna di odio che, in Uganda, continua ad essere alimentata ai predicatori evangelici nelle piazze delle periferie causando una versa e propria caccia agli omosessuali. Ancora oggi è in piedi una proposta di legge che chiede la pena di morte per i gay. Nell’ottobre del 2010, la rivista scandalistica Rolling Stone pubblicò le foto di 100 attivisti gay, con la richiesta di arresto e impiccagione. Tra questi c’era pure Kato, che venne poi assassinato nella sua abitazione a colpi di spranga. Messaggi di cordoglio per la sua morte arrivarono dall’Unione Europea, dal Dipartimento di Stato Usa, e varie associazioni tornarono a sollecitare la comunità internazionale ad esercitare pressioni sugli Stati africani.
Una nuova campagna è partita in questi giorni, ad opera del gruppo Everyone, per impedire che un giovane africano sia deportato da San Diego alla Nigeria. Becley Aigbuza, 28 anni, era fuggito in America dopo essere stato torturato e stuprato nel suo paese d’origine. Lo scorso anno aveva inoltrato al Governo degli Stati Uniti la richiesta di cittadinanza americana, ma ora è a rischio di espulsione per aver richiesto una carta di credito con un falso nome. “Nel 2008 – raccontano Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti di EveryOne, che seguono il caso – in un viaggio in Nigeria per fare visita alla zia paterna, scoperta la sua relazione con un ragazzo del posto, è stato da questa denunciato alle autorità di Benin City e prelevato da casa dalla polizia. Portato in una caserma, Becley è stato dapprima picchiato a sangue da alcuni detenuti, dopo che questi erano stati informati dai poliziotti della sua omosessualità, e successivamente torturato con dell’acido da tre agenti, che lo hanno sodomizzato a turno, per ore, usando una bottiglia di birra. Il giovane gay si è risvegliato in ospedale, con gravi ferite ed ecchimosi su tutto il corpo, una mano rotta e un testicolo mutilato”. Becley è riuscito a fuggire dall’ospedale e, grazie all’aiuto di un parroco che gli ha procurato un nuovo passaporto, a imbarcarsi di nuovo in un volo per San Diego, dove dall’età di undici anni viveva con il padre. “Mio padre e tutti i miei familiari in Nigeria – ha raccontato Becley agli attivisti del Gruppo EveryOne – hanno giurato di uccidermi, ‘per pulire l’abominio e la vergogna che ho portato in famiglia col mio essere gay'”. In queste ore, riferisce l’associazione, stanno arrivando da tutto il mondo centinaia di richieste di sospensione della deportazione: saranno tutte girate al presidente Obama.
Un messaggio importante, quello di Ban Ki Moon, come rileva Aurelio Mancuso, presidente di Equality Italia, che dovrebbe essere “recepito” anche dall’Italia: “Ricordiamo che anche nel nostro Paese i gay sono discriminati. Certo, a differenza dell’Africa, da noi non ci sono leggi che condannano l’omosessualità, ma il nostro Paese non attua nessuna politica attiva contro le discriminazioni. E per questo, pur essendo tra i Paesi fondatori dell’Unione Europea, siamo visti come fanalino di coda per i diritti civili. Basti pensare che l’amministrazione Obama è da tempo in prima fila per difendere i diritti dei gay, che sono stati recentemente definiti diritti umani. Dal punto di vista diplomatico è stato molto importante”. L’Italia, per Mancuso, “dovrebbe esercitare il suo ruolo nelle Nazioni Unite e in Europa, perché si tutelino le persone omosessuali in tutto il mondo. Qualcosa è stato fatto: grazie al governo Prodi, è stato, infatti, introdotto l’asilo per ragioni umanitarie per le persone omosessuali. Io personalmente ho seguito molti ragazzi africani, fuggiti in Italia, che hanno richiesto e ottenuto questo status”. Un plauso a Ban Ki Moon arriva da Paolo Patané, presidente nazionale di Arcigay: “Parole, quelle del segretario, coerenti con un rinnovato impegno, a livello internazionale, nella lotta ai crimini d’odio nei confronti delle persone omosessuali e transessuali, da parte di Onu, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia”. “E l’Italia dov’è? – si chiede polemicamente Patané – a quale comunità internazionale partecipa? A quella che vuole cambiare e migliorare il mondo o a quella che vuole continuare ad assistere silenziosamente ai massacri di persone lgbt in Africa, e non solo, per non imbarazzarsi del nulla normativo nazionale?”. L’Arcigay lancia anche un appello al presidente del consiglio, Monti: “Vorremmo che su questo il governo riflettesse. In Africa le persone omosessuali e transessuali muoiono per assenza di diritti, ma in Italia certamente non vivono da cittadini. Esiste per noi in questo Paese un diritto all’esistenza con vere pari possibilità? Arcigay chiede che l’Italia torni grande in Europa, anche con i diritti, impegnandosi ad una svolta positiva per l’approvazione della Direttiva orizzontale in materia di parità”.
Fonte repubblica.it