Questa volta nemmeno Pasolini li avrebbe difesi i poliziotti-proletari: hanno aggredito, picchiato e respinto in Sardegna centinaia di pastori sardi che cercavano di raggiungere Roma per protestare.
I pastori, uomini e donne non più giovanissimi, segnati dal duro lavoro nei campi, che li vede in piedi dalla mattina fino a sera tarda a spaccarsi le ossa per pochi spiccioli che non bastano più nemmeno per una sopravvivenza dignitosa. Uomini e donne che devono mantenere quelle famglie di cui tutti si riempiono la bocca ma che nessuno aiuta veramente. A questi uomini e a queste donne è stato impedito, con la violenza, il leggittimo diritto alla protesta. Altri uomini, impegnati in festini con escort e cocaina, in corruzioni da milioni di euro, in cene e pranzi succulenti pagati anche con i loro soldi, hanno deciso che quella protesta non doveva avvenire e hanno mandato la polizia a fare il lavoro sporco. Un divieto che fa male e fa indignare tutti noi sardi.
Un potere corrotto, criminale, esasperatamente ricco e che ostenta la sua ricchezza e la sua deriva morale in maniera così sfacciata da far esplodere la rabbia di tutti coloro che hanno affamato per poter pagare i loro vizi e il loro sfarzo.
Berlusconi è sicuramente l’emblema di questa realtà. Le sue aziende, le sue ville, i suoi festini, le sue puttane, i suoi amici mafiosi, le sue collane di diamanti, le sue ville ad Antigua, i suoi capelli finti, la sua chirurgia plastica stridono fortemente con le rughe profonde e i calli di quei pastori che sono stati picchiati e cacciati dall’Italia.
Le violenze di ieri ci devono far riflettere e devono contribuire a farci alzare la testa. Quando la nostra dignità viene calpestata, quando la nostra stessa esistenza è in pericolo, abbiamo tutto il diritto, e il dovere morale, di ribellarci e combattere il potere.
Certo, molti di quelli che protestano questo potere l’hanno votato. E l’elezione di Cappellacci in Sardegna è una ferita che difficilmente si rimarginerà: dopo anni di rafforzamento dell’identità abbiamo abbassato la testa e mostrato tutto il servilismo di cui siamo capaci. Abbiamo mandato via Soru, l’unico che ci ha fatto sentire orgogliosi di essere sardi, e abbiamo eletto il figlio del commercialista di Berlusconi.
I pastori hanno ricominciato ad alzare la testa. E tutti gli altri?
Sono stati bloccati per tutto il giorno nel porto di Civitavecchia i duecento pastori dell’Mps che, sbarcati dal traghetto alle 6 del mattino, volevano raggiungere Roma per protestare davanti al ministero dell’Agricoltura. Caricati violentemente, i pastori hanno denunciato il comportamento delle forze dell’ordine: «Contro di noi c’è stato un attacco a freddo causato da pregiudizi nei confronti dei sardi», ha accusato il leader dell’Mps Felice Floris. Dure anche le reazioni dell’opposizione a livello regionale e nazionale. Denunciata la violazione del diritto costituzionale di manifestare
CIVITAVECCHIA. Niente Roma, niente ministero, niente raccordo anulare da spaccare in quattro, nulla di nulla. Sulla terra ferma i pastori di Felice Floris hanno visto e preso solo botte. Incassate ma anche restituite, a mani nude, dentro una linea di confine che per i sardi di Orune, Olzai, Teulada, Assemini, Villaspeciosa è stata invalicabile: la banchina numero Uno del Porto Nuovo. Qui i trecento pastori del Movimento sono finiti prigionieri, sono stati pestati e hanno pestato. Alle 6.30 di martedì, dieci minuti dopo lo sbarco dal traghetto Nuraghes, dopo otto ore in mare, nel recinto hanno trovato ad aspettarli la loro muraglia umana.
Un cordone di poliziotti e carabinieri, cento in tutto, messo assieme, con ventiquattr’ore d’anticipo, dalla questura di Roma allertata da Cagliari, anche così: con un fax segnaletico, dedica speciale per Felice Floris e altri duecentonovantanove. È stato questo il peggior comitato di accoglienza, pensato e realizzato da chi, lunedì notte, aveva dato un ordine secco: «A Roma i pastori non devono arrivare». Eseguito. Alle 4.30 i 5 bus noleggiati e pagati in anticipo dal Movimento sono stati dirottati dalle forze dell’ordine a cinque chilometri dal porto, molto prima di diventare quello che dovevano essere: le navette per l’ultimo balzo della protesta.
Direzione via XX Settembre, uffici del ministero per le Politiche agricole, dove Felice Floris voleva annunciare, urbi et orbi, la nascita del Coordinamento mediterraneo della pastorizia stroncata e affamata in Italia, Francia, Spagna e Grecia. Oppure diretti da un’altra parte di Roma, stavolta alla «Bufalotta», snodo del Grande raccordo anulare, crocevia-sopravvivenza del traffico mostruoso che entra ed esce ogni giorno dalla Capitale.
Raccordo che forse doveva essere occupato, per far impazzire come non mai il solito folle e lento pachiderma di auto. Ordine eseguito, anche questo, signor questore: i pastori sono stati appiedati, Roma non l’hanno vista. Sono stati respinti, come da regolamento del Viminale. Con cariche e controcariche, manganelli sguainati e sbattuti su schiene, mani, bandiere e striscioni. E ancora: con corpo a corpo, persone trascinate sull’asfalto, altre sbattute contro i cellulari e poi fermate. Contro le donne, tante, che volevano strappare dalle manette i loro uomini sollevati di peso. Con anche un bel po’ di contusi sui due fronti, addossati in unico referto di colli strappati, spalle pestate, caviglie gonfie e polsi sglogati.
Le tensioni. Dalle 6.30 alle 7 questo fronte del porto è esploso in uno scenario altrettanto surreale: -2 gradi al livello del mare, nebbia spessa, luce violetta, quella di solito bella ma una schifezza da queste parti. È stato un cortometraggio di violenza pura, girato in presa diretta anche per i troppi errori commessi da un vicario del questore, che arriverà a gridare nel mezzo della baraonda: «Voglio tre arresti. Tre subito, poi con gli altri mi arrangio». Tutto questo non doveva accadere, ma è accaduto. In questa sequenza horror.
Il viaggio. Alle 6 la traversata Olbia-Civitavecchia è finita. Il Nuraghes della Tirrenia, solo cabine di prima classe, imballa come al solito le eliche. Poi si appoggia alla banchina, è la numero uno. È stata una notte tranquilla, imbandita fino a mezzanotte dal formaggio, dal porchetto e dal vino, i soli bagagli a mano dichiarati alla dogana. Il diario di bordo racconta: clima buono, da scampagnata e chiacchiere sul ponte. Che sono servite a tirar tardi fra crocicchi di economia agro-pastorale e accuse a «tutti gli speculatori che si sono fatti la pancia con il prezzo stracciato del latte e del pecorino». Nella notte sono stati questi i primi fuochi della protesta, ma il peggio sta per arrivare. È in agguato.
L’attesa. I trecento sbarcati alle 6 e un quarto fanno gruppo intorno a una guardiola incustodita. Dietro le quinte, ci sono gli altri, c’è il grosso: la polizia e i carabinieri. Più in fondo ancora, la polpa, nove cellulari e quattro gipponi rinforzati. Ma dove sono gli autobus per il Movimento in trasferta? Non ci sono: le forze dell’ordine li hanno intercettati due ore prima e un funzionario, rosso in volto ancor prima di cominciare, dice subito a chi gli si para davanti: «Non arriveranno finchè tu, Floris, non ci dirai cosa volete fare a Roma». Cosa volete fare? Il capopopolo del gruppone lo sa da giorni ma tiene il segreto per sé. E l’altro, di rimando: «Fate i duri? Allora state qui». Sequestrati.
I tafferugli. È l’inizio del muro contro muro. C’è freddo, molto freddo, ma non per le anime in campo. Prigionieri in un recinto fatto di uomimi dello Stato e inferriate della Capitaneria, i pastori ondeggiano. Protestano, pretendono i pullman, ma gli altri continuano a fare le stesse domande: cosa volete? dove vorreste andare? Il filo della trattativa è annodato e spezzato in continuazione, con la tensione che sale a picco, con i cancelli sbattuti in faccia a chi vuole aggirare la riserva sardo-indiana e rompere l’accerchiamento: «Non siamo bestie, veniano in pace», dicono gli indiani arivati dalla Sardegna.
E il loro coro di voci si trasforma presto in grida. Niente da fare. Il funzionario col berrettino da baseball e mezzo sigaro fra i denti non si commuove, non molla un metro: «Né autobus, né a piedi. Vi teniamo qui. Anzi, prima vi identifichiamo, poi si vedrà». È l’innesco: le polveri si accendono, la santabarbara esplode. «È una vergogna – urla Felice Floris – è un sequestro preventivo. È la repressione, è un processo barbaro alle nostre intenzioni». È da questo momento che verrà giù il mondo, insieme al blocco degli autotreni e delle auto stretti d’assedio dai manifestanti ora seduti e schierati.
I blocchi. Alle 6.45 un gruppetto di pastori vuole sfondare una cancellata: non ci riesce. I poliziotti fanno scudo per primi. Difendono il presidio poi contrattaccano, quando il lucchetto sta per spaccarsi. Su i caschi, giù le visiere, non hanno gli scudi, ma tirano fuori tanti, troppi, molti manganelli. I carabinieri fanno lo stesso. Ecco, è questo il momento della guerra: non più di posizione, ma sfacciata, piena: sarà travolgente. Alle 7 tutte le divise si buttano sui pastori, tutti i pastori sulle divise: dovunque è un duello dopo l’altro.
Priamo Cottu, un metro e sessanta da Ollolai, è caricato a testa bassa da un carabiniere alto due, ma ci vogliono altri quattro in borghese per immobilizzarlo e impacchettarlo. Felice Floris cerca di difendere i suoi: cinque poliziotti gli vanno addosso quasi avessero sulla giubba non i simboli dello Stato ma l’icona del football americano, il placcaggio. Ma c’è chi riesce a strappare la preda a chi fa in fretta a spalancare le porte di un cellulare per buttarcela dentro: sono sei donne. Vincono loro, la polizia è battuta, Felice Floris dà uno strattone, è di nuovo libero, senza più addosso il giaccone a vento e con la magliettina della salute tirata su fino al collo.
Ancora botte. Negli stessi venti metri continuano a darsele: c’è chi rotea addirittura la ricetrasmittente e i pastori gli danno addosso con le stecche delle bandiere, le buste di pane carasu e i valigiotti rigonfi del resto, formaggio e carne cotta. Schizza di tutto, sull’asfalto e nella bolgia. Altra gente cade, e le donne fanno rialzare i caduti. Altri uomini incrociano pugni, braccia e gambe con polizia e carabinieri. La differenza fra i duellanti è solo nella presa: rurale quella degli eredi di sa strumpa, epica lotta libera del Nuorese, marziale, da arti marziali, per gli agenti, con prese strozza-collo da wrestling.
Sono sempre e soltanto botte, fanno male. Chi ha vinto? Chi ha perso? È finita? No, ci sono ancora fiammate: Priamo Cottu è ammenettato, i suoi amici circondano la Volante dove vorrebbero caricarlo. Sono sempre pugni e spintoni fra gente ormai malconcia, nonostante continui a sfidarsi, muso contro muso. È durato tutto quindici minuti, molto meno della lunga guerriglia di fine ottobre, a Cagliari, ma l’effetto è stato lo stesso: non doveva accadere, è accaduto. Purtroppo.
I negoziati. «Siamo venuti in pace», è l’implorazione dell’unico sindaco sulla piazza: Giovanni Orrù, municipio di Busachi. Alle 7.30 è lui a saltare da un ring all’altro: divide, fa da paciere, ottiene il rilascio di Cottu, conta quelli che stanno peggio, almeno cinque dei suoi: una caviglia gonfia (Maria Barca, portavoce del Movimento), una spalla che fa male (Felice Floris), due ginocchia sbucciate fra le donne e un polso slogato tra gli uomini. È Giovannino Orrù l’uomo dell’armistizio, e quello che fa in un attimo ha del miracoloso: porta la pace. Finalmente. Così il sipario sui lottatori di Civitavecchia cala quando il sole è già alto e nello stesso momento in cui sul piazzale arrivano giornalisti, fotografi, cameramen di ogni tipo e colore. La marcia è saltata, ma il botto mediatico che da lì a poco andrà in onda, farà molto più rumore di un sit-in capitolino.
L’alt. Niente Roma, peccato. Ai pastori il commissariato vieterà alle 9 persino di entrare alla stazione: chi ha l’accento sardo e porta addosso i colori blu del Movimento non può fare il biglietto. Appiedato era, appiedato resterà. Chi l’ha ordinato? Sempre lo stesso vicario del signor questore, quello del «voglio almeno tre arresti, tre». Niente ministero, peccato: nonostante il goffo tentativo annunciato da chissà quale sottosegretario («Verrò a parlamentare») finirà anche lui imbottigliato nel traffico e controvoglia, dicono, dovrà rinunciare alla ghiotta passerella post disordini. Niente raccordo anulare, neanche quello, per i pastori. Niente di niente. Solo botte.