Nella giornata di ieri è stata celebrata, un po’ in sordina, la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Purtroppo fatti di stretta attualità hanno involontariamente oscurato questa importante ricorrenza. Il mosinforma coglie l’occasione per riproporre un illuminante articolo di Marco Deriu pubblicato un po’ di tempo fa nell’inserto domenicale Queer allegato al quotidiano Liberazione.
La violenza maschile sulle donne è un fenomeno antico e di ampie dimensioni. Un fenomeno talmente radicato da permeare gran parte delle nostre istituzioni e delle nostre produzioni sociali, culturali economiche e politiche. Proprio per questo è una realtà che non riusciamo a comprendere e ad afferrare fino in fondo, in tutta la sua portata e il suo significato. È troppo aderente al paesaggio consueto delle società in cui viviamo. La violenza è una modalità che gli uomini usano come abitudine, perché è qualcosa a cui si è stati socializzati, come espressione identitaria, in quanto modalità espressiva culturale della propria maschilità o virilità, come modalità di affermazione sociale (si pensi alle recenti dichiarazioni di Putin su Katsav), come strumento di controllo sociale e dominio e infine come modalità di regolazione dei rapporti affettivi.
Gli studi antropologici ci suggeriscono, fra l’altro, che il dominio e la violenza maschile sulle donne si fondano a loro volta su un dominio e una gerarchia tra uomini, ovvero su una gerarchizzazione tra dominanti in stato di competizione costante; e questo implica una forma di potere e di violenza anche intrasessuale, tra uomini e anche su se stessi. Nei fatti la violenza la si impara fin da piccoli. Prima di diventare autori veri e propri si è stati bersaglio, testimoni, complici, apprendisti.
Non c’è dunque da stupirsi se scopriamo che questa violenza contro le donne non appartiene a particolari categorie di uomini ma attraversa tutte le classi e le provenienze sociali e culturali. Essa ci è familiare, appartiene alla nostra storia più di quanto siamo disposti ad ammettere. Una recente indagine dell’Istat (2005) ci ricorda che gli autori di queste violenze sono in maggioranza amici, coniugi, conviventi, fidanzati o ex, mentre solo una minima parte (3.5%) riguarda estranei. Nel 31,2% dei casi inoltre la violenza è avvenuta nella propria abitazione e solamente il 12,6% in strada.
C’è qualcosa di emblematico nel fatto che il luogo che simbolicamente rappresenta l’affettò, la tranquillità, la protezione, la condivisione sia in realtà il principale luogo della violenza contro le donne. È questo che ci è difficile riconoscere, il fatto che dobbiamo prima di tutto interrogare la normalità: interrogare la famiglia, i nostri rapporti affettivi, ciò che chiamiamo amore; ciò che ci sembra luminoso e trasparente e che invece è oscuro e ambivalente. La violenza è talmente intrecciata alle nostre relazioni che è difficile riconoscerla. Le stesse donne che subiscono violenza in contesti famigliari spesso non la riconoscono in quanto tale o ne sminuiscono la portata. Sovente occorrono molti anni per ammettere che si tratta di violenza. Perché è difficile per tutti ri-conoscere che il compagno che si è scelto o il parente a cui si è legati, ovvero le persone che più amiamo, siano proprio coloro che ci fanno del male e minacciano di distruggerci. È più facile negarlo o attribuirne la colpa ad un proprio comportamento o ad un fatto eccezionale.
Violenza non è semplicemente l’atto fisico, l’urto o la forza applicata ad un corpo. Violenza è anzitutto un processo relazionale in cui consapevolmente o inconsapevolmente si ricerca l’offesa, la negazione o la sottomissione della donna, del suo corpo, del suo desiderio. Quello che va interrogato non è soltanto il gesto finale che isolato rischia di rimanere incomprensibile, ma tutto il ciclo di interazioni – idee, proiezioni,atteggiamenti, comportamenti, emozioni, che lo preparano e i significati relazionali e sociali che vi sonò sottesi. C’è un continuum sottile che parte dalle frasi o dai giudizi quotidiani che mirano a reprimere aspetti del desiderio della propria partner, ad abbassare la sua autostima o la sua immagine, passando per gli insulti e le minacce fino alle punizioni psicologiche o fisiche, in uri crescendo di violenza. Non è affatto facile sciogliere questo continuum e distinguere tra “tollerabile” o “patologico”. Il vero discrimine in realtà è il disconoscimento dell’autonomia e della libertà della donna e questo non comincia con le botte o le violenze fisiche, ma molto prima e nei casi più sottili può perfino prescinderne.
C’è un’ordinarietà della violenza che struttura la quotidianità delle relazioni e di cui spesso non vediamo le tracce. In effetti se l’atto violento può essere in sé condannato dall’opinione comune, non altrettanto si può dire delle premesse culturali e psicologiche che lo precedono e lo rendono possibile. Su quelle non è difficile accorgersi che vi è un’ampia condivisione: il senso di possesso, la gelosia, l’incapacità di accettare il conflitto, il rifiuto delle comunicazioni negative, il bisogno di controllo della relazione, la mancanza di libertà e di autonomia, la riduzione della partner a sostegno e appendice dei nostri bisogni ecc…
In realtà l’analfabetismo nelle relazioni uomo-donna è una condizione piuttosto comune. Al contrario la capacità di costruire relazioni in cui c’è spazio per la differenza, per il riconoscimento dell’alterità, in cui c’è la capacità di esprimere e vivere il conflitto sono una prassi ancora in gran parte da costruire.
La violenza è un modo per cercare di controllare e domare attraverso il timore le persone che ci stanno intorno, in specie quelle con cui si hanno i legami affettivi più importanti e dalle quali Si è psicologicamente dipendenti. In questo si manifesta la fragilità, o meglio la debolézza da parte degli uomini. La violenza è indice di una mancanza di presenza a se stessi e di un sentimento di insicurezza profondo. Dietro la violenza maschile, in filigrana si può riconoscere una doppia paura: la paura della propria insignificanza, della propria inutilità, del proprio ruolo affettivo e insieme paradossalmente la paura della relazione e del conflitto. Queste due paure finiscono per intrecciarsi in modo tale che una riconduce continuamente all’altra e entrambe spingono verso il tentativo di controllare e di sottomettere la propria partner.
Da questo punto di vista, oggi la violenza maschile assume forme ancora più estreme, come quella dell’omicidio, perché la libertà e l’autonomia della donna sono oramai sostanzialmente un dato di fatto, qualcosa di irriducibile. E quando manca la maturità psicologica ed affettiva per riconoscere e accogliere la propria alterità e il suo desiderio autonomo, allora la si fa fuori letteralmente.
Ma a questo proposito val la pena riflettere su quanto suggeriva Simone Weil: «Tale la natura della forza, il potere ch’essa possiede, di trasformare gli uomini in cose, è duplice e si esercita da ambo le partì; essa pietrifica diversamente, ma ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la Usano». Diversamente ma ugualmente, nota Simone Weil. Gli uomini che con la violenza riducono al silenzio la propria partner, rinchiudono nel silenzio anche se stessi. Non solo non sono più capaci di empatia, di uscire da sé e approssimarsi all’altra, ma divengono anche incapaci di uscire dai propri schemi di comportamento per essere assorbiti nella coazione cieca della violenza. Incapaci di mettersi in discussione non possono più aprirsi al cambiamento di sé, della relazione e della propria vita. E perdono la possibilità di gestire la propria esistenza con libertà e creatività.
Il lavoro che possono fare gli uomini è quello di rinunciare all’illusione del potere e alle tentazioni di controllo e svalorizzazione a tutti i livelli, dagli affetti alla politica. Ma a quali condizioni questo è possibile? Con quale forza interiore e sociale possiamo deciderci ogni giorno a questa rinuncia?
Liberarci via via dell’ossessione del potere e del controllo è possibile infatti solo se contemporaneamente si intraprende un percorso di ritrovamento di un senso di sé differente che permetta
ad ogni uomo di uscire da un’immagine monolitica e degradante di se stesso, il rispetto di sé e il rispetto dell’altro -soprattutto in presenza del negativo, nell’esperienza del dolore, del rifiuto, dell’abbandono – non possono infatti che procedere insieme. Poiché – come ricordava ancora Simone Weil – «quando si è dovuta distruggere ogni aspirazione di vita in se stessi, per rispettare in altri la vita è necessario uno sforzo di generosità da spezzare il cuore».
Il percorso che stiamo portando avanti con altri amici, con l’appello contro la violenza e con gli incontri pubblici e le reti di scambio con uomini e donne, ha anche questo significato: ritrovare assieme la fiducia nella possibilità di vivere la propria maschilità in modo ricco; la fiducia nella possibilità di costruire una propria autorevolezza al di fuori del potere e della legge; la fiducia nella possibilità di mettersi in gioco in relazioni libere e rispettose. La fiducia nel fatto che, comunque vada, le relazioni e i conflitti che esse portano con sé non possono diminuirci ma semmai arricchirci e renderci un poco più umani.
Questo articolo è apparso in Queer, inserto domenicale di “Liberazione”, il 12 novembre 2006