«Ci poniamo la domanda: in una società meno transfobica, in una società meno binaria, avremmo bisogno di fare tutto ciò che facciamo? Indossiamo abiti che l’assegnazione di genere ci preclude e speriamo che gli ormoni mutino i nostri corpi: lo faremmo lo stesso? Nascondiamo il seno con i binder, cerchiamo la posizione in cui il bozzo del pene un po’ scompare. Siamo credibili? Siamo incredibili? Si vede che siamo in lotta con il genere assegnato?»
Nel 2020 pubblica il pamphlet La mostruositrans. Per un’alleanza transfemminista fra le creature mostre (Eris, 64 pagine, 6 euro)
Filomena “Filo” Sottile, per citare quasi testualmente la presentazione che fa di sé nel suo blog (reperibile qui https://filosottile.noblogs.org/filo-chi/ e da visitare all’istante), è una punkastorie che mescola e assembla parole, riflessioni, prospettive e canzoni. Nel 2020 pubblica il pamphlet La mostruositrans. Per un’alleanza transfemminista fra le creature mostre (Eris, 64 pagine, 6 euro),manifesto politico e riflessione profonda su come provare a sfuggire, se proprio non si riesce a decostruirle, alle maglie della normatività.
Nel misurarsi con la scrittura, mezzo espressivo che padroneggia con evidente abilità, Filomena “Filo” Sottile adempie brillantemente all’intento personale di fare della sua opera, teatrale e letteraria, un «lavoro militante» con cui «contribuire alla vita della polis», e di certo si può dire senza alcuna esitazione che dalla lettura di Mostruositrans si esce non solo profondamente arricchitә, ma anche maggiormente consapevoli di cosa sia l’attivismo transfemminista e di come si declini nella quotidianità. La chiarezza espositiva è, infatti, uno dei numerosi punti di forza di un accurato lavoro da cui non emergono, tuttavia, toni didascalici o professorali ma una consolidata maestria nell’affrontare con delicatezza, sarcasmo, precisione un tema di estrema importanza come quello dell’identità.
Non viene in ogni caso a mancare il carattere più prettamente ludico della narrazione sostenuto, tra le altre cose, da una pungente e a tratti amara ironia che contribuisce significativamente a rendere coinvolgente la lettura: «ma questo è niente rispetto a ciò che abbiamo provato quando [all’endocrinologa] abbiamo detto di aver sospeso l’antiandrogeno per recuperare almeno parte della capacità erettiva. Si è allarmata, ci ha chiesto subito se quindi volevamo interrompere il percorso, se volevamo ancora cambiare i dati anagrafici e che uso intendessimo fare di codeste erezioni. Avremmo voluto dirle: – Ci battiamo la grancassa alla Trans freedom march!».
Sempre in materia di stile, si nota come Filo Sottile impreziosisca il testo con riferimenti alla mitologia, al romanzo gotico, alla letteratura horror, che vanno da Esiodo a Mary Shelley, da Oscar Wilde a Stephen King (per citarne solo alcunә); richiami che non sono puramente estetici ma diventano espedienti per ragionare su un sistema rigido, che appiattisce o cancella tutto ciò che identifica come trans: «Siamo come Griffin, l’uomo invisibile di H.G. Wells che sperimenta su di sé la sua pozione. Dopo essere divenuto trasparente, è costretto a rendersi conto di una serie di questioni sociali. Per esempio, gli è impossibile procurarsi denaro con “un’onesta occupazione”. È costretto a fuggire, a chiudersi in clandestinità – nel linguaggio della comunità lo chiamiamo closet – e poi sperimentare stratagemmi di visibilità: abiti, protesi, trucchi, espedienti che gli permettano di essere percepibile in mezzo agli altri individui. La società intorno a Griffin è sospettosa: chi si nasconde in realtà, lì sotto? Che terribile segreto cela questo fantoccio? Non a caso, Griffin è sempre ansioso e irritabile. Quando si rende conto che la sua stessa esistenza è un crimine, si infuria e accarezza l’idea di istituire un’altra società, in cui possa uscire dallo status di reietto. È la sua ultima e più grave intemperanza. Viene ucciso a calci, pugni e bastonate. Una volta morto il suo corpo torna visibile. Capita lo stesso anche a noi».
Sfruttando la lunga citazione si può sottolineare come il punto di vista sia espresso tramite una prima persona plurale: non un io narrante, dunque, ma un noi. È, da una parte, una scelta politica principalmente in onore delle individualità di cui viene portata testimonianza, delle creature mostre che «turbano l’armonia sociale». Dall’altra, non sarà sfuggito a chi legge che si tratta, al contempo, di un azzeccatissimo escamotage che facilita un’immersione profonda nei vissuti altri,che inseriti in una prospettiva di più ampio spettro diventano patrimonio condiviso: «noi, piccolo gruppo di sorelle, fratelli, siblings, siamo coscienti che pur avendo tutte qualcosa in comune, ogni esperienza trans è unica e irripetibile e che la sensibilità con le quali ci posizioniamo rispetto ai nostri corpi e ai nostri desideri sono praticamente infinite. Scriviamo queste parole non “una voce per tutte”, ma “una voce fra le voci”».
Un pamphlet che diventa, così, racconto collettivo e collettaneo, che accoglie chiunque sia bendispostә ad ascoltare, fuori e dentro di sé, il rumore di identità in movimento, che cambiano, e che non accettano più di essere incasellatә o dimidiate. Non c’è in tutte le sessantaquattro pagine una sola, piccola concessione alla retorica; è forse per questo che la «rassegna breve, lacunosa, integrabile delle forme che assumiamo e dei pericoli che ci tocca affrontare» è tanto potente. Viene voglia di rileggerla all’infinito, impararla a memoria, vestirsi di transfemminismo e sentirsi finalmente liberatә dalle prescrizioni del genere che, come ci ricorda anche Chimamanda Ngozi Adichie, stabiliscono come dovremmo essere invece di riconoscere come siamo*. L’ultimo invito è quello a non retrocedere e a non smettere di interrogarsi sulla norma patriarcale, che «è esigente e ci addestra a essere dei dignitosi Jekyll, persone che sono un tutt’uno con il proprio genere e i dettami che ne conseguono. Chi, sotto il torchio di questa imposizione, si trova a scoprire dentro di sé un Edward Hyde – un maschio un po’ femmina, una femmina un po’ maschio o, peggio, non si riconosce nei due generi – è bene che se ne preoccupi e che isoli il male. I nostri abiti femminili per anni sono stati nascosti in una scatola in cantina, separati da quelli che ci erano consoni. Li potevamo indossare solo in casa, a tapparelle abbassate, oppure in giro di notte, quando era più improbabile che incontrassimo gente che ci riconoscesse. Allora provavamo un fugace e temporaneo senso di liberazione. Poi in fretta e furia ci toglievamo tutto, imboscavamo gonna, autoreggenti e reggiseni e cercavamo di cancellare le tracce della trasformazione. Eravamo Hyde, hide, persone nascoste. Esattamente come Jekyll, poi ci pentivamo di quei piaceri e giuravamo che avremmo smesso: abbiamo buttato nell’immondizia il nostro guardaroba clandestino mille volte. Le similitudini potrebbero proseguire: si potrebbe dire che, così come accade nel romanzo di Stevenson, oggi la nostra parte che infrange la norma ha preso il sopravvento e non siamo più capaci di tornare a essere rispettabili».
Roberta Passaghe
*Chimamanda Ngozi Adichie, Dovremmo essere tutti femministi