A Firenze il primo giorno della kermesse fondativa di Sinistra Ecologia e Libertà. Il saluto del presidente Napolitano. Gli abbracci tra Nichi e Bertinotti. Fischi dei delegati agli ospiti di Cisl e Uil, il governatore pugliese rimbrotta i responsabili
UN’ORA e un quarto di discorso, citazioni di Antonio Gramsci e Oscar Wilde, una narrazione politica quasi “evangelica”. Parte così a Firenze il congresso fondativo di Sinistra Ecologia e Libertà, con l’intervento del portavoce e leader Nichi Vendola.
Vendola cita solo una volta il Pd, paragona l’avvento del berlusconismo alla nascita del fascismo (“Si è sottovalutato quel processo culturale come nei primi anni ’20 si sottovalutarono le squadracce”), attacca Marchionne e Tremonti e ripete come un mantra la parola chiave della sua strategia politica: “lavoro”.
La kermesse si apre con i saluti del sindaco di Firenze Matteo Renzi. Anche Napolitano manda il suo messaggio ai delegati: “E’ importante che la politica eviti di rinchiudersi nel localismo e nella mera difesa di interessi corporativi e sappia invece riscoprire la dimensione dell’interesse generale”, scrive il presidente della Repubblica. In prima fila c’è Fausto Bertinotti, padre putativo del presidente della Puglia. Ma anche esponenti di tutto il centrosinistra: da Anna Finocchiaro (Pd) a Paolo Ferrero (Prc-Fed. Sinistra), da Fabio Evangelisti (Idv) a Riccardo Nencini (Psi).
L’intervento di Vendola parte con un’autocritica rivolta a tutta la sinistra: “Dobbiamo riconoscere le nostre sconfitte”. Poi rilancia la centralità del lavoro, messo in crisi dal “turbocapitalismo finanziario”. Così l’ad Fiat Marchionne non è la modernità “ma una bolla mediatica che vuole rappresentare il nuovo con la regressione sociale”. Il ministro dell’Economia Tremonti diventa invece un attore che “può svolgere tutte le parti in commedia: fustigatore di banchieri, affamatore del popolo, critico no-global del sistema”.
Il berlusconismo visto da Vendola è vittorioso prima culturalmente e solo dopo politicamente: “Berlusconi ha cominciato a vincere 20 anni prima con le sue tv; quando la scuola pubblica ha cominciato a perdere e la tv a vincere lì è nato il fenomeno, che non è un’anomalia ma l’autobiografia di una nazione”. Poi un passaggio dedicato alla Lega Nord: “Per scalzare la Lega non dobbiamo fare come la Lega, dobbiamo piuttosto coniugare territorio e cosmopolitismo”.
Poi il leader di Sel redarguisce “i compagni e le compagne”, quelli che hanno fischiato le delegazioni di Cisl, Uil e socialisti presenti al congresso: “Considero sbagliata l’opzione di Cisl e Uil, ma con loro voglio discutere e non voglio farmi prendere dalle contumelie, perché con quelle non si può ragionare”.
Le ovazioni Vendola se le prende quando parla della missione della sinistra. Si rivolge al Pd e al fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari, che in un editoriale 1 di alcune settimane fa parlò di lui come di un “corto circuito”: “La sinistra è davvero un impedimento a vincere? La sinistra è la missione di un paese, noi abbiamo bisogno di ricostruire un discorso sulla salvezza dell’Italia”. Si accalora e con lui la platea quando spiega che “ci siamo stancati di perdere bene, adesso vogliamo vincere”.
Nel mezzo, messaggi distensivi a tutto il resto del centrosinistra, compresi Grillo (“l’ansia del cambiamento non può essere l’estetica della bestemmia, abbiamo bisogno di riconoscerci gli uni con gli altri”) e i comunisti della Federazione della Sinistra (“basta coi risentimenti, è il momento dei sentimenti”). E ai delegati fa capire che Sel è un momento di passaggio quando dice che “lo scopo è costruire la sinistra del XXI secolo, siamo un seme che deve far nascere un germoglio. Ma poi il seme muore e diventa altro, non restiamo attaccati al partito come se fosse un feticcio”.
Il discorso si chiude con un’ammissione, quella di rischiare di essere vittima del leaderismo (“Ma non mi sono dimenticato di essere un ragazzo di Terlizzi”); e con un “inno alla bellezza”: “Torniamo alla bellezza delle relazioni”, a quella dell'”accogliersi tra generazioni”, la bellezza dell’incontrarsi tra “il mondo vivente” e quello “non vivente”.
l linguista Antonelli: «È un’operazione di rottura rispetto al Cavaliere, dal gentese si vuole passare all’intellettualese»
ROMA – «E lei mi consenta l’ossimoro». La parodia che il comico Checco Zalone fa di Nichi Vendola coglie esattamente quello che più sorprende e incuriosisce del leader pugliese di Sinistra e libertà: il tic della parola ricercata che quasi mai nessuno usa, di cui pochi conoscono il significato e che per questo distrae, crea un effetto speciale. Un effetto di «smarrimento», direbbe Nichi. Insomma, parlare del mondo gay come di una «condizione atopica», indicare Avetrana come «l’epifania del nostro e non del mostro», rispolverare «l’ontologia» per affiancarla a concetti semplici come la libertà, ci porta alla stessa domanda che si faceva Totò in un famoso sketch: «Vediamo questo dove vuole arrivare».
La risposta ce la offre chi con le parole ci costruisce teorie, ci ragiona e non resta un attimo perplesso ascoltando i «paradigmi» di Vendola che s’incastrano e s’intrecciano in menti impreparate al ritorno della lingua colta. Giuseppe Antonelli, quarantenne linguista e professore all’università di Cassino, ci spiega: «Il punto è proprio questo: Vendola sta facendo un’operazione opposta e nuova rispetto a quella che aveva fatto Berlusconi. Lui vuol passare dal “gentese”, che prima di tutti fu di Bossi e poi del Cavaliere, all'”intellettualese”. Il salto culturale è prendere le distanze dalla semplificazione, dall’appiattimento e far tornare la politica in un luogo colto, riflessivo».
In pratica, l’avventura di Vendola è anche l’avventura dentro il vocabolario italiano. Anche a costo di diventare parodistico, come dimostra Checco Zalone. «Ma è un’operazione calcolata che mira a distinguerlo da Berlusconi: dalla tivù si passa invece alla “narrazione” e allo slogan pubblicitario si preferisce il “racconto”. Esattamente l’opposto, appunto, di quel che fece il Cavaliere che si allontanò dal politichese, da quella lingua opaca e confusa della prima repubblica, per arrivare a tutti attraverso la lingua di tutti: pochi concetti chiari e ripetuti come negli spot pubblicitari». Antonelli ci fa strada spiegando l’uso della lingua per arrivare al consenso ed è ovvio che Vendola non punti alle masse.
A chi parla Nichi? «Al precariato intellettuale. La proletarizzazione del lavoro intellettuale è ormai una realtà italiana: insegnanti, ricercatori, chi lavora nelle case editrici. Questo è il mondo che Vendola ha ben individuato e che vuole portare con sè in una competizione tutta interna alla sinistra perchè “ruba” consensi al Pd, a Grillo e a Di Pietro. E come fugge le semplificazioni del Cavaliere che ha soppiantato la scuola pubblica con la Tivù, così fugge dal linguaggio rissoso dei grillini o dell’Idv. E con il suo “difficilese” cerca di conquistare quel mondo di intelettuali marginali». Una volta c’erano i poveri ma belli, oggi ci sono i poveri ma intellettuali anche se la «bellezza» è uno dei capitoli più gettonati da Nichi che arriva a citazioni del Vangelo e di Pasolini, di Basaglia e del Papa per raccontarla. Il tutto condito da «catarsi» ed «epifenomeni». «Vede è proprio questo l’effetto che fa la lingua. Crea un meccanismo di identificazione, detto anche di ricalco. E proprio quelle parole così inusuali creano però in chi ne capisce il significato un senso di appartenenza. In questo è evidente che Vendola cerca una nicchia, non il consenso largo, limitando così anche il suo ruolo di leadership». Una nicchia di happy few che finalmente riabbraccia «metafore» e «paradigmi».
Da Il Sole 24 ore