mercoledì 06 ottobre 2010, da Corriere.it
Il cantante si confessa: «Da tempo non stavo bene. Due anni fa ho iniziato un percorso di analisi»
ROMA – Tiziano Ferro si racconta in un’intervista a Vanity Fair (visibile anche sul sito Style.it). E si confessa: «Da tempo non stavo bene, e avevo capito di dover riprendere in mano una serie di cose: dal forzato esilio lontano da amici e famiglia alla relazione col mio lavoro, al rapporto contrastato con l’omosessualità. Così, dopo due anni di duro lavoro su me stesso, sono arrivato a una conclusione: volevo vivere meglio».
«Che cosa succederà dopo?», chiede Tiziano Ferro. Poi si risponde da solo: «Niente sarà più come prima». «Dopo» è dopo questa intervista, che Vanity Fair pubblica come storia di copertina nel numero in edicola dal 6 ottobre. E prima del libro autobiografico Trent’anni e una chiacchierata con papà (in libreria dal 20 ottobre), dove l’artista ha raccolto i suoi diari dal 1995 al 2010 per fare un regalo a chi gli vuole bene, ma soprattutto a se stesso: vivere felice e contento. E concedersi l’amore che troppo a lungo si è negato.
«Un paio di anni fa», racconta, «ho iniziato un percorso di analisi. Da tempo non stavo bene, e avevo capito di dover riprendere in mano una serie di cose, a partire dal mio rapporto con l’omosessualità. Così, al termine dello scorso anno, sono arrivato a una conclusione: volevo vivere quella parte di me, smettere di considerarla un mostro, qualcosa di negativo, addirittura invalidante». I primi dubbi, spiega, risalgono alla sua adolescenza, quando aveva una fidanzata. Proprio a lei li confidò: «Le dissi che pensavo di essere attratto anche dai ragazzi. Mi rise teneramente in faccia, mi disse che non poteva essere vero». Poi arrivò il successo travolgente e Tiziano, incapace di «chiarirmi con me stesso» sui suoi sentimenti, scelse di non viverli. «Non posso puntare il dito contro nessuno, solo contro me stesso», spiega, «Tuttora non so spiegarmi perché considerassi l’omosessualità una specie di “malattia”… Non ho la presunzione di salvare nessuno, ma se il mio libro potesse aiutare qualcuno a evitare di perdere tutti gli anni che ho buttato via io, sarei felice».
Le voci ricorrenti sulla sua omosessualità, spiega, «mi facevano una tale rabbia. Non perché non volessi passare per gay, ma perché la verità è che un fidanzato avrei voluto avercelo. E, invece, non avevo nessuno». Perché? «Perché avrei dovuto vivere una doppia vita e io non ne sono capace. Mi dà fastidio quando si parla di accettazione dell’omosessualità. Io, semmai, sogno la condivisione. Una famiglia che accetti le mie scelte non mi basta, voglio che le viva insieme a me. E lo stesso vale per i miei amici». Ora che quella condivisione è diventata realtà, è pronto a vivere pienamente. «Cerco l’amore, la parte della vita che mi è mancata finora… Per il momento sono solo, ma spero presto di non esserlo più».
Dopo tanti anni all’ombra di tentativi, rinunce, attese strazianti, sforzi e privazioni, sarei stato disposto a smettere di cantare.
Ero pronto a buttare al vento i sacrifici, non contavano più le lacrime di speranza, e nemmeno quelle di gioia. Persino le soddisfazioni e i sogni erano passati in secondo piano.
Nella mia testa era così: «Se sono omosessuale non posso stare al mondo».
Mi sentivo come un bambino caduto a terra abbandonato dalla madre che sconfitto attende il suo destino piangendo, disperandosi.
La musica per me è sempre stata la speranza più grande, eppure, di fronte alla mia incapacità di trovare una via d’uscita, ero deciso a separarmi da lei. Consciamente e disgraziatamente.
A quel punto ne ho parlato con mio padre che mi disse: «Ascoltami, la tua vita è particolare perché tu sei speciale. Impara a rispettarti. Il tuo sollievo è anche il mio sollievo». Fu la spinta definitiva a tentare il tutto per tutto: ho iniziato un percorso e imparato con pazienza ad affrontare gli ostacoli, a non aggirare i pericoli. Di questo gli sono grato. Sono grato a lui e a tutti quelli che mi sono stati accanto fino a ora.
Poi mi sono rivolto all’avvocato Giulia Bongiorno per chiederle un parere, una mano, un consiglio, forse solo una parola.
L’ho fatto senza rendermene conto: mi sono rivolto a un penalista!
Come se le mie azioni e i miei pensieri fossero incriminanti. Come se la mia condizione costituisse un reato.
E un reato così grave da dover essere punito con la pena più severa: smettere di cantare.
Arrivo dall’avvocato Bongiorno nervosissimo, dopo una notte insonne.
Lei, che ammiro incondizionatamente da anni, improvvisamente mi apre un mondo quando mi rassicura con tono fermo ed espressione schietta: «Non c’è cosa migliore dell’andare da un penalista quando non se ne ha bisogno!».
E io ho sorriso. Ma non con il viso, perlomeno non solo. Ho sorriso dentro: dopo tanto tempo mi sono sentito col cuore finalmente più leggero.
E poi mi sono sentito capito, e ancora sostenuto. Forse anche un po’ protetto.
Protetto dopo tanti anni passati da solo dietro le barricate a tentare di capire dove si nascondesse il nemico, per poi giungere alla conclusione che l’unico nemico era rappresentato soltanto da me e dalla crudele inconsapevolezza con la quale mi ostinavo ad affrontare la vita.
C’è un tempo per tutto: un tempo per parlare e un tempo per stare zitti.
Il silenzio vale tanto, e ora preferisco che sia questo libro a parlare per me.
Tiziano Ferro
06 ottobre 2010 da Corriere.it