Finalmente qualche voce fuori dal coro nella grande stampa nazionale. Dopo le condanne dei violenti, le denunce di infiltrati (che forse ci sono anche stati ma non certo determinanti), l’analisi si sposta sulle motivazioni più profonde della protesta. E’ un inizio, speriamo che anche il PD la smetta di gridare ai servizi e cominci a ragionare di politica, a partire proprio dalla riforma dell’Università che cominciò proprio da Berlinguer.
Un articolo di Giuseppe D’Avanzo su RepubblicaASCOLTATO Maroni che si lamenta della magistratura e osservate le mosse di Alfano che ordina un’ispezione ministeriale, si deve concludere che il governo non ha capito o non vuole capire che cosa è accaduto a Roma il 14 dicembre. Peggio, sembra non comprendere che cosa può accadere mercoledì prossimo quando al Senato sarà approvata definitivamente la “riforma Gelmini”. Questo provvedimento ormai non parla più soltanto dell’università o agli studenti e ai ricercatori.
È diventato il simbolo della crisi di una generazione e del suo futuro. Si è trasformato nella rappresentazione dell’indifferenza dei governanti per i governati, dell’incapacità del potere di ascoltare chi è in difficoltà e impaurito. È ormai l’allegoria del disinteresse della politica per la sofferenza del mondo del lavoro, per lo smarrimento di chi, colpito da una catastrofe (un terremoto, la crisi dei rifiuti), è stato abbandonato a se stesso.
Il 14 dicembre a Roma non è accaduto soltanto che un gruppo di violenti si sia impadronito della protesta e – poi – la violenza di ogni ragione. È accaduto che per la prima volta nei modi del tumulto (lasciamo perdere l’esasperazione di chi parla di “guerriglia”) ha preso forma pubblica e collettiva un rancore senza speranza, la rabbia di un Paese incattivito, socialmente fragile, segnato “da forme sommerse di deprivazione, di vera e propria povertà e soprattutto di impoverimento”, come documenta Marco Revelli
nel suo Poveri, noi. Un Paese dove il prezzo della crisi – e delle soluzioni preparate dal governo – cala come un maglio sulla vita e sulle aspettative soprattutto dei più giovani. Le statistiche ufficiali ce lo raccontano. Per l’Osce, nei 33 Paesi maggiormente industrializzati, l’Italia è al penultimo posto per l’occupazione giovanile con il 21,7 per cento di occupati: soltanto uno su cinque lavora. Tra chi è occupato il 44,4 per cento ha un lavoro precario e il 18,8 lavora part-time. Tra chi è disoccupato, il 40 per cento lo è da lungo tempo e il 14,9 ormai non studia né lavora. D’altronde – dice Marco Revelli – “l’80 per cento dei posti di lavoro perduti tra il 2008 e il 2010 riguarda i giovani, quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, a somministrazione, a progetto… Precari nello sviluppo, disoccupati nella crisi, senza la copertura degli ammortizzatori, spesso senza neppure un sussidio minimo. I più istruiti e altamente qualificati, quelli che appartengono al “mondo dei cognitivi”, alle nuove professioni come l’informatica, sono ormai ridotti a sottoproletariato”.
Se rimuove questo quadro, il governo si impedisce di comprendere, ammesso che lo voglia, le ragioni della violenza. Non le ragioni di chi, vestito o no di nero, centro sociale o “cane sciolto”, vuole “stare in piazza” con le pratiche dei black bloc e, prigioniero di un freddo nichilismo, non si fa alcuna illusione sulla democrazia e pensa – come il “blocco nero” – che “la violenza non sia un problema morale, è semplicemente la vita, il mondo in cui siamo capitati che non lascia altra strada che l’illegalità”.
Queste ragioni sono inaccettabili e questa violenza va anticipata, isolata e ogni illegalità punita. È un’operazione che può avere un esito positivo soltanto se – in tutti coloro che il 14 dicembre non si sono opposti o hanno addirittura approvato quelle violenze – si alimenta una speranza nella democrazia e la fiducia nel dialogo con le istituzioni; se si attenua la convinzione diffusa in una larga fascia di giovani (16/35 anni) di essere le vittime sacrificali del declino, le anime morte della crisi.
Il messaggio che ieri il governo ha voluto diffondere è stato di segno opposto. Come se la crisi sociale rappresentata il 14 dicembre potesse essere affrontata come “questione di ordine pubblico”, Maroni e Alfano hanno voluto dire soltanto della forza, con quale violenza e determinazione il governo avrebbe affrontato l’emergenza di nuovi tumulti. Lo hanno fatto nei soliti modi di un governo che crede in un diritto diseguale e immagina, per i potenti, un diritto debole e per i deboli leggi e dispositivi brutali. Questi campioni del “garantismo” che chiedono legittimamente per Cosentino, Dell’Utri, Verdini, Bertolaso l’accertamento della responsabilità personali, la verifica della fondatezza delle accuse e dell’attendibilità delle fonti di prova pretendono, abusivamente, un lavoro all’ingrosso per i giovani e giovanissimi arrestati a Roma l’altro giorno. Invocano, al di là delle prove, una detenzione esemplare non per le dirette responsabilità degli indagati, ma per le colpe di chi è riuscito a farla franca come se la stessa presenza a una manifestazione travolta dalle violenze sia già una prova di colpevolezza. Un’idea autoritaria che trova la sua dimostrazione nella insensata proposta del sottosegretario all’interno Alfredo Mantovano di allargare il “divieto di accedere alle manifestazioni sportive” (il D. a. spo.) dagli stadi alle piazze, come se una manifestazione di dissenso possa essere paragonata a una partita di calcio.
È l’avvilita idea di democrazia della destra berlusconiana. Ci deve consigliare attenzione perché non sarà con la forza e con “la repressione”, invocata già a caldo dal ministro Sacconi, che si verrà a capo della crepa che si è aperta tra le generazioni più giovani e le istituzioni. Sarebbe azzardato e imprudente se un governo politicamente e socialmente debole decidesse di rafforzare se stesso allargando quella ferita, accendendo la collera invece di raffreddarla prestando ascolto alle ragioni del disagio.